Nuvole in scatola
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I bambini, a volte, sono come gli ingegneri elettronici (non me ne vogliano gli ingegneri elettronici: ho molti amici ingegneri elettronici): tu dai loro un input e devi aspettarti un output, secondo l'algoritmo prefissato, senza elaborazioni personali. Il passaggio da "seguire istruzioni" a "usare il buon senso" non sempre c'è (è piuttosto ben presente la caratteristica opposta, quella di non ascoltarle affatto, le istruzioni).

Un coniglietto molto ubbidiente

Tutto questo per raccontarvi di Un coniglietto molto ubbidiente, di Silvia Borando. Come molti libri di minibombo, è difficile introdurvi la sinossi senza fare spoiler, perché è il "twist" finale a dare senso a tutto l'albo.

Diciamo che la trama si basa su un rito di passaggio: il coniglietto che viene lasciato solo a casa per la prima volta, proprio perché molto ubbidiente. Ma si basa anche sulla più classica delle istruzioni: "Non aprire agli sconosciuti".

Un coniglietto molto ubbidiente

E così, quando una serie di animaletti inoffensivi si presentano alla porta chiedendo aiuto, perché inseguiti da un leone, il coniglietto non ci pensa proprio ad aprire. Salvo poi... ok, non posso dire altro, se non che naturalmente il finale desta stupore e risate.

Come molti altri albi di minibombo, Un coniglietto molto ubbidiente può sembrare, per la quantità di testo e la qualità delle immagini, destinato a un pubblico di piccolissimi, ma richiede la comprensione di un certo livello di ironia e di umorismo che non lo rendono adatto prima dei 5 anni.

Cosa aggiungere senza aggiungere troppo? Forse posso suggerire il messaggio di fondo, che è rivolto probabilmente più ai genitori che ai bambini: inutile dare regole precise come dogmi, meglio dare delle ragioni valide a supporto, in modo da rendere applicabile il buon senso. Anche quello degli ingegneri elettronici. Fidatevi: ho molti amici ingegneri elettronici.

 


Sono in genere due i modi in cui i bambini ingigantiscono le piccole sventure: le rendono tragiche, ma allo stesso tempo le rendono eroiche.

La ferita

Lo racconta in modo efficace e autentico Emma Adbåge in La ferita, un albo edito da Camelozampa che conferma la capacità dell'autrice di leggere l'animo dei bambini, come già avevamo visto in Il regalo.

La narrazione, svolta in prima persona, inizia a scuola, dove il protagonista cade e si procura una ferita a un ginocchio. Come spesso accade, in questi casi, un evento del genere impressiona i bambini, ma li fa anche sentire importanti: le attenzioni puntate su di lui, il rosso del sangue, il rito della cura che termina con "il cerotto più grande della mia vita".

La ferita

Se agli occhi di un adulto questa storia sembra piccola, forse quell'adulto ha scordato quelle sensazioni che ogni bambino conosce bene.

Adbåge dissemina qua e là, sempre con molta naturalezza, dettagli di quel filtro sulla realtà di cui solo l'infanzia è capace: quel "ho proprio dovuto togliere un angolino del cerotto per controllare", o il sollievo di quando il protagonista si sente dire che di quella ferita resterà una cicatrice.

Qualsiasi adulto spererebbe il contrario, ma per un bambino è diverso: quella ferita è un segno di coraggio, di eroismo, di una prova superata, di un'esperienza che lo rende più grande e importante.

Forse è questo uno dei tanti passi che ci fanno lasciare alle spalle l'infanzia: la voglia di cancellare le cicatrici, anziché portarle con fierezza. Forse è questa, una delle cose che da grandi dovremmo essere capaci di recuperare.

Si dice sempre che un genitore debba dare a un figlio radici e ali.

Forse per questo sembra meno surreale di quanto non sia, questo albo di Jon Agee.

papà è un albero

Papà è un albero, edito da Il Castoro, affonda le sue radici (per l'appunto) in molti temi cari ai bambini: la natura, il gioco all'aria aperta, la vicinanza del genitore.

Maddy, la piccola protagonista, propone al papà di fingersi un albero, per poter stare fuori tutto il giorno.

papà è un albero

Quello che nasce come un gioco assume presto contorni iperbolici: subito gli uccellini si posano e fanno il nido su di lui, un ragno tesse la sua tela, uno scoiattolo deposita noccioline nella sua tasca.

Non è solo un papà-albero, quello a cui dà vita la piccola Maddy: è anche un papà-casa, un papà-natura, un papà-coccola. È un essere accogliente verso il mondo.

papà è un albero

Tutti questi animaletti iniziano a dare fastidio, e poi c'è la pioggia, ma Maddy continua, pagina dopo pagina, a dire al papà che tutto questo non importa: lui è un albero e agli alberi queste cose non fanno nulla.

Manca forse una vera e propria storia, con un punto di svolta narrativo, un ostacolo da superare: accadono piccoli episodi, illustrati con gli sguardi un po' ironici tipici di Jon Agee, e l'albo è tutto qui. Ma in queste scene semplici Papà è un albero (link affiliato) riesce a toccare corde molto importanti per un bambino: il legame con la natura, ma prima ancora la gioia di un padre che non ha paura di "perdere tempo", di dedicarsi alla figlia, di stare alle sue regole, di giocare nel senso più pieno.

La gioia di un papà che accoglie, come fa un albero con i suoi ospiti.
 

Ogni tanto faccio qualche incursione nel mondo degli Young Adults, sarà che non voglio perdere il contatto con "quella" me di "qualche" anno fa, o sarà che ora ho effettivamente un preadolescente in casa (sì, quel Piccolo T al quale agli esordi del blog leggevo Piccolo blu e piccolo giallo!).

[Piccola nota: sono detti Young Adults quei libri pensati per ragazzi dai 12-13 anni in su. Si potrebbero chiamare "libri per teenager", ma chissà perché suona un po' riduttivo. Non sono libri riduttivi, non necessariamente.]

eterno ritorno di clara hart

Il target di L'eterno ritorno di Clara Hart,  di Louise Finch, pubblicato da Terre di mezzo con la traduzione di Paolo Maria Bonora, è proprio questo, il che non significa che non me lo sia goduto io stessa, nonostante non sia "teen" da un po'. Sulle prime mi è dispiaciuto non averlo finito e recensito entro la giornata internazionale della donna, ma poi ho pensato che è giusto così. Perché per quanto il tema del maschilismo e della violenza di genere siano ben presenti, qui dentro c'è molto di più, e sarebbe giusto ridurlo a libro "a tema" da usare per una "giornata a tema".

Innanzitutto, L'eterno ritorno di Clara Hart parla di scelte e dell'impatto che hanno sulla nostra vita. L'idea alla base è un po' quella del "giorno della marmotta": Spence, il protagonista, si ritrova a vivere da capo sempre la stessa giornata, che si conclude in modo tragico, con la morte della compagna di scuola Clara. Questa esperienza lo porterà in una spirale (non sempre lineare) di consapevolezza sia di ciò che accade attorno a lui, sia di come le proprie azioni possano influire su cià che accade.

Ma si parla anche di abusi (alcool, droghe), e di violenza sessuale, quel genere di violenza che ancora socialmente non sempre è compresa come tale. Si fa avanti parallelamente anche il tema della responsabilità, del ruolo di chi sa e può decidere di parlare o di tacere, delle battute che non sono solo battute, degli epiteti che nascondono una certa visione della donna come oggetto sessuale.

E inevitabilmente, si parla di morte, non solo quella di Clara. La giornata che Spence continua a rivivere è il primo anniversario dell'incidente che ha ucciso sua madre. E così si parla anche di dialogo e di incomunicabilità, di quanto sia difficile affrontare un lutto, sentirsi compresi, della vacuità delle frasi di circostanza che ci si sente dire, di quanto una parola più vera possa fare la differenza.

eterno ritorno di clara hart

È anche un libro sull'amicizia, su cosa significhi starsi vicino, vedersi veramente, sul coraggio di rendersi conto che un amico sbaglia. È un romanzo fitto di dialoghi, non sempre riuscitissimi, a dirla tutta (non è chiaro se sia la scrittura o la traduzione a incespicare, o se semplicemente l'autrice volesse rendere la sconclusionatezza di certi scambi di battute tra adolescenti), dialoghi nei quali è evidente che non sempre parlare significa comunicare.

Non ci sono scene troppo esplicite: quella violenza così spesso evocata non è mai descritta in dettaglio, ma non per questo il romanzo fa sconti. Le parole scavano a fondo nei dilemmi, nell'etica, nel significato delle proprie azioni, nel senso di tante scelte, senza mai diventare uno scritto pedagogico. La prosa resta autentica anche quando il protagonista si dà delle lezioni di vita, perché il percorso attraverso il quale ci arriva ha ben poco di retorico e molto di reale, imperfetto, vero.

E se è vero che alla fine un messaggio resta, quello del rispetto, della trasparenza, della responsabilità delle proprie azioni, non resta per una morale detta col ditino alzato, ma perché per più di 250 pagine abbiamo cercato le risposte giuste insieme a Spence, e le risposte che abbiamo le abbiamo trovate con lui

Ha scelto un nome onomatopeico e molto promettente, la casa editrice Terre di mezzo, per la sua nuova collana a fumetti: Uau! Un nome che in un semplice suono racconta già la tipologia delle pubblicazioni e la meraviglia nel leggerle.

Mitica Astrid

Questa avventura nel mondo dei fumetti e dei graphic novel inizia con una serie dedicata ai primi lettori, sui 7-8 anni: un target ideale per questo formato, che concilia il piacere di una storia "da grandi" con una quantità di testo ancora limitata e semplice da affrontare. Mitica Astrid. La casa infestata e Mitica Astrid. In classe con i fantasmi sono i primi due volumi di una serie firmata dal francese Fabrice Parme, che vede protagonista una ragazzina facoltosa, che vive in una grande villa con servitù. Roba d'altri tempi, insomma, anche se Astrid è un'eroina molto moderna.

In La casa infestata ha a che fare con la caduta del suo primo dente. Astrid si sente grande per credere al topino dei dentini, e quindi per scoprire la verità dissemina la stanza di trappole, e finirà poi per svelare trame segrete di veri topini dei denti e di topini impostori.

 Mitica Astrid - la casa infestata

Nell'avventura In classe con i fantasmi, vediamo invece Astrid frequentare un collegio privato, in seguito alle dimissioni della sua istitutrice. Sull'istituto, opportunamente ubicato in un luogo di nome Canterville, aleggia una leggenda di fantasmi, a cui ormai quasi nessuno crede più, tranne ovviamente Astrid, che troverà il modo di provare la sua teoria.

Mitica Astrid - in classe con i fantasmi

Astrid è un'eroina caotica, che ricorda un po' Dory Fantasmagorica (per rimanere su Terre di mezzo) e prima ancora Pippi Calzelunghe: uno spirito libero e fuori controllo, a suo modo geniale, che mal sopporta la noia e si inventa trovate sempre nuove per superarla. La narrazione segue lo spirito della protagonista: frenetica, ricca, con dialoghi incalzanti.

Pur inserito nella tradizione del fumetto franco-belga, la serie ha un'ambientazione decisamente british e a dirla tutta, l'espressività dei protagonisti ricorda, nei tratti grafici, le serie a cartoni statunitensi contemporanee. 

 Mitica Astrid - la casa infestata

Forte è il contrasto tra lo sfarzo dell'ambiente domestico e la vitalità della bambina, circondata secondo molti cliché, ripresi con una certa ironia, da genitori assenti e servitù particolarmente attenta e premurosa.

Mitica Astrid - la casa infestata

Ancora più interessante, a mio parere, il secondo capitolo, in cui Astrid esce dall'ambito domestico e si trova, pur nell'eccezionalità del contesto (un collegio infestato dai fantasmi!), a far fronte a problematiche molto quotidiane e comuni, in cui ogni bambino si può riconoscere: l'integrazione in un gruppo di amici, la diffidenza con cui viene guardato il "secchione" della classe.

L'allegria vince sulla morale (evviva! Anzi: Uau!), e ciò che resta di Astrid è la sua piacevole capacità di sostare tra normale e paranormale. Con i "topi dei denti" prima e con i fantasmi del collegio poi, Astrid dimostra una certa dimestichezza con le creature magiche, che pur senza essere dotata di poteri o facoltà speciali, riesce a vivere con molta naturalezza, integrandole nella realtà quotidiana.

Astrid, in questo, è specchio di quel pensiero magico tipico dei bambini, che non percepiscono nettamente il confine tra possibile e impossibile. Ed è un quel confine così sfumato che nascono le storie.

Dà sempre una sensazione di piacevole compiutezza vedere come una storia possa essere al tempo stesso semplice e sfaccettata.

George e Martha bis

Nella seconda raccolta delle loro avventure (della prima vi avevo parlato qui), ovvero George e Martha bis! i due strepitosi ippopotami di  James Marshall portati in Italia da Lupoguido con la traduzione di Sergio Ruzzier non smentiscono questa vocazione ad essere lievi e profondi insieme.

George e Martha bis

George e Martha bis! contiene i volumi che non erano rientrati nella prima raccolta: George e Martha Risate a Gogò, George e Martha Son tornati, George e Martha Gira e rigira, ognuno composto da cinque sketch brevi, arguti, semplici da leggere per il loro testo breve e il linguaggio diretto, ma profondi nel loro rispecchiare l'animo umano e nello spazio lasciato al lettore per riempire i non-detti.

George e Martha bis

George e Martha (non ci avevo fatto caso all'inizio, ma i loro nomi sono quelli di una coppia particolarmente celebre: i Washington!) si rivelano sempre di più due adulti-bambini: li troviamo alle prese con promesse non mantenute e tentazioni irresistibili (dal cibo alla curiosità di aprire un pacchetto sul quale c'è scritto "non aprire"), ma soprattutto con continui dispetti reciproci e con le conseguenti litigate.

Come bambini offesi, giurano di non fare pace mai più e poi non resistono più di un giorno l'uno lontano dall'altra.

Oppure li vediamo alle prese con il gioco dei ruoli, con George che fa il bagnino e deve ammonire Martha, e si trova in difficoltà, perché è al tempo stesso un'autorità e un amico. Se le situazioni che affrontano sono comuni e quotidiane, il punto di vista non è mai banale e scava nelle umane debolezze, portandole alla luce con garbo e ironia.

George e Martha bis

C'è spazio anche per un po' di sperimentazione nel linguaggio visivo: pur mantenendo il suo tratto pulito e semplice, l'autore osa qualche taglio inconsueto, come George inquadrato solo a metà mentre esce di scena, o Martha in un primissimo piano che le evidenzia denti e narici, in una fotografia alla macchinetta automatica.

Anche nell'illustrazione, insomma, si percorre la via della semplicità inconsueta, che comunica più di ciò che si vede a un primo sguardo.

Resta impagabile l'allegria che portano questi due personaggi straordinari a cui non riusciamo a non voler bene, perché in fondo, in questi due ippopotami, riconosciamo tutta la nostra umanità.

Non c'è libro di Anthony Browne che non parli di sogni.

Non perché il tema sia sempre quello, sia chiaro, ma nelle sue illustrazioni – nello stile, ma anche nei contenuti – vi è sempre qualcosa di onirico, di ineffabile, di perturbante su cui il lettore può decidere di soffermarsi o di passare oltre, ma che comunque lascia una traccia nella fruizione dell'opera.

È quel qualcosa che "disturba", di cui spesso è fatta l'arte, quell'elemento che spinge a guardare oltre e a terminare la lettura con un senso di apertura, anziché di compiutezza.

Willy sogna

Willy sogna, edito da Camelozampa con la traduzione di Sara Saorin, è forse l'apoteosi di questa poetica. Qui il sogno è contenuto e contenitore, è tema del libro e cifra stilistica delle illustrazioni.

Non ha una trama vera e propria, Willy sogna. La sua struttura è semplicemente l'esposizione, pagina dopo pagina, dei sogni più frequenti del gorilla protagonista (come lo stile onirico, anche il gorilla è un marchio di fabbrica di Browne). Ma la dimensione narrativa è sostituita da una profondità verticale: ogni tavola racconta molto più di quello che dice la didascalia.

Willy sogna

Si parte da sogni che rappresentano ambizioni: il gorilla sogna di essere un attore, un cantante, ma anche un ballerino in tutù (i sogni, si sa, non hanno i nostri limiti sociali).

Willy sogna

Vi sono poi i classici sogni ricorrenti, come quello di volare o, al contrario, di non riuscire a muoversi. Sogni in cui il bambino che legge può iniziare a riconoscersi, scoprendo l'universalità di certi archetipi.

Non so dare, a proposito, un'età di riferimento per questo albo. 
Credo che un bambino di 4 anni possa riconoscervi i propri sogni e che un adulto possa navigare nell'arte delle immagini. Il non-detto, qui, è talmente presente da diventare protagonista e aprire grandi spazi all'interpretazione.
Non manca nemmeno una componente giocosa: i risguardi, pieni di banane, invitano in modo implicito a cercare il frutto del libro. E sono davvero tanti gli inserimenti curiosi di banane, in ogni tavola (avevate notato le scarpette del ballerino?).

Rispecchiando la grammatica dei sogni, le tavole sono zeppe di elementi fuori contesto, assurdi, curiosi: porte che si aprono sul versante di una montagna, prospettive impossibili con fiumi che sfociano su un pavimento, castelli con ciminiere da industria.

Ma l'aspetto più evidente all'occhio adulto sono le innumerevoli citazioni: favole, film, personaggi, ma soprattutto pittori, e naturalmente, in tema di sogni, pittori surrealisti (anche se, quando Willy sogna di fare il pittore, dipinge quadri di Van Gogh). Non si contano i riferimenti a Dalì e Magritte, e talvolta il calco vero e proprio di una loro tela. 
Sono opere potenti, quelle dei surrealisti, capaci di far vibrare corde dell'inconscio proprio perché sull'inconscio poggiano la propria cifra stilistica, e che proprio per questo lasciano tracce anche in chi, come i bambini, manca ancora di un'alfabetizzazione storico-artistica.


Willy sogna

 
A proposito: l'omaggio ai surrealisti inizia già dal frontespizio, che sembra dichiarare allo stesso tempo l'ispirazione dell'albo e... la centralità delle banane.

"Se i muri potessero parlare...", si dice.

Ecco: certi muri parlano, in effetti, a volte perché portano i segni di qualche evento passato, altre volte perché qualcuno li ha resi testimonianza materiale della vita  – o della tragedia – che hanno vissuto. 

La vecchia casa sul canale

La vecchia casa sul canale di Thomas Harding e Britta Teckentrup (quella di L'albero dei ricordi, ma anche di L'altalena, pubblicato da Uovonero, come l'albo di cui vi parlo oggi) fa parlare i muri di una casa molto speciale, quella che fu il nascondiglio di Anne Frank, prima di essere catturata dai nazisti.

La vecchia casa sul canale

La prospettiva di quest'albo è molto originale: la storia della shoah viene approcciata in modo marginale, pur senza farle perdere di intensità, inserita in una più generale storia dell'umanità o, se vogliamo, del mondo.
La prima scena dell'albo ci riporta infatti a un'epoca in cui, nel luogo dove oggi sorge la casa, l'uomo non era ancora arrivato: nelle incantevoli illustrazioni di Britta Teckentrup non vediamo che una palude, con due aironi, un paio di mucche al pascolo, uccelli che punteggiano il cielo sereno.

Qui arriva il lavoro dell'uomo, che bonifica, costruisce un canale. La storia della casa diventa anche storia di Amsterdam stessa.

La vecchia casa sul canale

Nell'angolo in alto a destra, le date ci mostrano lo scorrere del tempo. La costruzione della casa, il passaggio da un proprietario all'altro, ma anche da una funzione all'altra: da dimora di un ricco mercante, a stalla, a bottega. Finché la casa non diventa nascondiglio.
Alla tragedia della deportazione di Anne viene dedicata appena qualche pagina in più. Ne vediamo i fatti, con qualche sfumatura di emozione, ma il punto di vista resta quello della casa e di ciò che può testimoniare.

La vecchia casa sul canale non è un libro pensato per raccontare la storia di Anne Frank, né la shoah: è certamente destinato a chi quel contesto già lo conosce. Potrebbe piuttosto essere trattato come una "guida turistica" prima di un viaggio ad Amsterdam, per leggere la vita e la storia di quella casa prima di visitarla.

Ma credo ci si possa leggere molto di più.

Nel raccontare la casa negli anni, ci sembra di avvertire l'indifferenza dello scorrere del tempo, di quel campanile che continua a battere le ore allo stesso modo, come se non ci fosse differenza tra un prima e un dopo. Il destino di Anne è un punto nella storia di un edificio che ignora la portata del fatto storico che ha contenuto. Questa impossibilità di entrare davvero nella vita di Anne genera nel lettore un senso di incompiutezza e di ingiustizia che forse raccontano il senso della giornata della memoria molto più di quanto non facciano le storie più dettagliate.

La vecchia casa sul canale è anche la dimostrazione di come quella memoria spetti a noi mantenerla viva, perché è solo grazie all'insistenza del padre di Anne che la casa, ormai quasi in rovina, è divenuta museo e testimonianza degli eventi tragici che ha vissuto.

Solo grazie a un uomo, al suo dolore, alla sua testarda volontà, la tragedia ha cabiato il corso delle cose, spezzando il susseguirsi di propietari e di destinazioni e rendendo quella casa una testimonianza.




"Un romanzo malvagiamente scritto e ignominiosamente illustrato dall'autrice": già il sottotitolo in copertina dice molto su questo irresistibile romanzo.

La famiglia Sappington

Non è certo una novità editoriale, La famiglia Sappington: la prima edizione in lingua originale è del 2008, quella italiana (per Il castoro) del 2009, ma ve ne voglio parlare perché è uno di quei romanzi a mio avviso imperdibili per la qualità della scrittura e dell'umorismo.

A casa nostra lo abbiamo letto in lettura condivisa e ci siamo dovuti fermare spesso (più di quanto non sia accaduto con qualsiasi altro libro, credo), perché letteralmente piegati in due dalle risate.

L'unico avvertimento che mi sento di dare è: tenetevene alla larga se cercate storie con una morale, storie "per bene", storie corrette (ma fanno davvero ridere, quelle?). In La famiglia Sappington il livello di cinismo è elevatissimo, e perdipiù trasmesso con una naturalezza e un aplomb molto british, che è la cifra stilistica principale di tutto il libro.

Non farebbe così ridere se i suoi aspetti caricaturali e paradossali fossero raccontati con incredulità e stupore. No: l'aspetto più divertente è il tono compassato e neutro della magistrale Lois Lowry (reso in modo molto efficace dalla traduzione di Pico Floridi) mentre racconta episodi di una cattiveria indicibile.

La famiglia Sappington

Forse più che continuare a descrivere, vale la pena di fare un esempio.

All'inizio del romanzo i Sappington trovano una neonata abbandonata fuori dalla porta di casa.

"Vorrei tenerla", disse Jane con una vocina timida. "È carina"

"No, non è affatto carina", disse Bernabò A, guardandola.

"Non è carina per niente", confermò Bernabò B.

"Ha i ricci", indicò Jane.

La madre scrutò la bambina; poi infilò la mano nel cesto da lavoro con la lana beige che teneva sul tavolo dell'ingresso. Tirò fuori uun paio di forbicine dorate e le provò, aprendole e chiudendole alcune volte, con aria pensierosa. Poi si piegò sulla cesta e cominciò a tagliare.

"Adesso non ce li ha più i ricci", commentò, e mise via le forbici.

Jane fissò il bebè. Improvvisamente smise di piangere e la fissò con gli occhi spalancati. "Oh, no. Senza i ricci non è più carina", disse Jane. "Mi sa che adesso non la voglio più".

La famiglia Sappington è costituita da due genitori che sognano di disfarsi dei propri figli, e quattro figli che sognano di disfarsi dei genitori, naturalmente gli uni all'insaputa degli altri, e tutto questo genererà una serie di avventure e di intrecci avvincenti ed esilaranti, ma soprattutto di dialoghi cinici, arguti e spiazzanti.

I genitori arrivano al punto di non ricordare i nomi dei figli, o di infastidirsi all'idea che i due gemelli pretendano di avere un maglione a testa, anziché uno condiviso.

Questo disprezzo reciproco, così radicato da diventare caricaturale, ha anche qualcosa di catartico, perché in qualche modo catalizza, ridimensiona e sdrammatizza tutti quei pensieri negativi che inevitabilmente genitori e figli fanno l'uno nei confronti dell'altro. La famiglia Sappington è un libro straordinario da leggere ad alta voce, forse anche per questo motivo.

Dal romanzo è stato tratto anche un film di animazione, che prende il nome dal titolo originale, "La famiglia Willoughby": una pellicola gradevole ma che a mio parere non riesce a esprimere lo humour della scrittura di Lois Lowry. Fa ridere, insomma, ma in modo più sguaiato e meno elegante, facendo diventare a tratti le caricature delle macchiette.

Come accade quasi sempre, "era meglio il libro".




Ci si aspetta in genere che un libro per bambini sia piano e lineare, almeno nel suo primo livello di lettura: che sia chiaro da subito qual è il tema, la direzione che prende la trama.

Non è detto che debba essere così.

Per catturare un rospo magico

Per catturare un rospo magico di Pierdomenico Baccalario e Daniela Demurtas, edito da Camelozampa, spiazza il lettore fin dalla prima pagina per il peculiare rapporto tra testo e immagine: di fatto, sembra che parole e illustrazioni raccontino due storie completamente diverse, in palese rottura, per chi mastica un po' di semiotica, della massima conversazionale di Grice sulla pertinenza.

Proseguendo la lettura, ci si aspetta che queste due strade si incontrino, ma questo non avviene mai, perlomeno non in modo esplicito e non totalmente, lasciando grande spazio alle inferenze compiute dal lettore. Quello che mi piace, di questo approccio, è che si pone di fronte al lettore bambino attribuendogli grande dignità e competenza: lo coinvolge nella costruzione della storia, e allo stesso tempo, attraverso questa operazione, gli insegna moltissimo su come la comunicazione e la narrazione funzionano.

Tornando al contenuto, il testo resta coerente, e fedele al titolo, dall'inizio alla fine, fornendo le istruzioni su come fare Per catturare un rospo magico, appunto: bisogna indossare un cappello viola, farsi accompagnare da un buon amico, conoscere almeno un passaggio segreto...

Le immagini, però, accanto a questa dimensione di gioco e avventura, ne raccontano un'altra, e i più attenti lo noteranno prima ancora di iniziare un libro, già dai risguardi: cosa c'entrano con il rospo magico quelle foto della protagonista col suo cane? E nell'illustrazione che apre la storia, perché vediamo in primo piano il volantino di un cane smarrito?

Per catturare un rospo magico

Proseguendo, queste tracce restano lì, sospese, e per un po' anche a livello visivo l'albo riprende il suo più tradizionale spirito avventuroso, con tanto di mappa-gioco disegnata dai bambini.

Per catturare un rospo magico

Non manca nemmeno il classico percorso in un bosco dalle forme spettrali e dai colori insoliti (Daniela Demurtas interpreta molto bene la dimensione in bilico tra gioco, magia e realtà di questa storia).

Per catturare un rospo magico

Il testo di Baccalario non lo dirà mai, ma dalle immagini scopriamo che la ricerca del rospo magico, capace di esprimere desideri, ha a che fare proprio con la scomparsa della cagnolina, e tutto il non-detto ritroverà infine un senso, sciogliendo una tensione che si fa via via più densa.

Eco la definirebbe probabilmente una vera e propria "passeggiata nel bosco letterario": e come tutte le passeggiate, conta dove ci porta, ma soprattutto quello che ci fa vivere lungo il cammino.


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Eccomi

Copywriter e anche un po' account, co-autrice di fumetti, dilettante (ma appassionata) del fai da te, navigatrice compulsiva, divoratrice di libri e di serie TV. Divido la casa con un marito, tre figli e parecchi gatti di polvere.

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