Nuvole in scatola
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I lupi, nei libri per bambini, sono cattivi.

Oppure rovesciano lo stereotipo e sono "buoni", nel senso che non mangiano nessuno, o al limite lo mangiano per una buona ragione. 

L'immaginario del predatore, insomma, è legato strettamente a un giudizio morale (come se non fossimo noi stessi i primi predatori!) e viene difficile inquadrare un animale per ciò che rappresenta, per la propria specie e per l'equilibrio dell'ecosistema.

Quattordici lupi. Storia vera di un ritorno

Quattordici lupi. Storia vera di un ritorno, di Catherine Barr con le illustrazioni di Jenni Desmond, Editoriale Scienza, racconta il lupo nel suo ruolo ecologico, immerso nel suo ecosistema, e lo fa attraverso una storia vera: la reintroduzione di quattordici lupi nel parco di Yellowstone, il primo parco nazionale al mondo (quello che i più attempati come me ricorderanno come scenario delle avventure di Yoghi e Bubu).

Ed ecco un altro concetto che Quattordici lupi ci porta e che non ci è del tutto intuitivo: la rinaturalizzazione. Spesso immaginiamo interventi di conservazione e protezione di una specie nel suo habitat, ma non è così scontato pensare che laddove la conservazione è fallita e la specie è scomparsa, si possa intervenire con azioni di ripopolazione.

La storia vera di Quattordici lupi inizia proprio dalla scomparsa del lupo a Yellowstone, a causa dei cacciatori e degli allevatori che volevano proteggere il proprio bestiame.

A visualizzare la scomparsa del lupo, c'è l'avanzata dei wapiti, una specie di cervi che senza il loro predatore naturale si moltiplica a dismisura nel parco, turbandone l'equilibrio.

 Quattordici lupi. Storia vera di un ritorno

Come se la pagina fosse il suolo del parco, vediamo i wapiti brucare consumando il verde della vegetazione. A dare carattere a questo albo sono soprattutto le illustrazioni, acquerelli potenti e suggestivi che infondono ora la forza inarrestabile della natura, ora l'immensità del nuovo ambiente dei lupi nel loro viaggio, ora l'intensità del loro sguardo.

Sono immagini forti, che attraversano le pagine come fossero paesaggi e si imprimono nella mente del lettore facendogli percepire sensazioni, profumi, scenari.

Quattordici lupi. Storia vera di un ritorno


L'albo segue la storia, gli spostamenti, la riproduzione dei lupi fino alla loro completa reintroduzione nell'ambiente, ma soprattutto ci illustra l'effetto di questo ripopolamento: qualcosa che va oltre ciò che possiamo immaginare e che allarga il suo impatto non solo sui wapiti, la preda prediletta dei lupi, ma su tutto l'ecosistema animale e vegetale e perfino, sorprendentemente, sulla morfologia del luogo, modificando in modo benefico il corso del fiume.

La catena causa effetto è talmente articolata che a nessuno, spontaneamente, verrebbe in mente, eppure appare chiarissima e logica nella spiegazione di Catherine Barr.

Ogni essere, vivente e non vivente, è connesso a tutti gli altri.

Per questo un lupo non può essere né buono, né cattivo, ma è semplicemente un lupo.


Se vi chiedo di immaginare un essere creato dall'uomo ma che improvvisamente acquisisce una coscienza, a cosa pensate?
Probabilmente a un robot, un androide: nel nostro immaginario la vita nasce dalla tecnologia.

mamma in polvere
 

L'intuizione originale di Pino Pace è quella di modificare questo cliché: in Mamma in polvere (edito da Camelozampa) la vita nasce dalla chimica.
Le "Lio", baby sitter artificiali, sono vendute in sacchetti, come fossero detersivo in polvere (accattivante è l'immagine di copertina, molto pop, dell'illustratrice Cristina Portolano): creature liofilizzate che immerse in una vasca d'acqua si compongono in un surrogato di essere umano, caldo e morbido ma privo di ossa di sostegno.

Entità nate per servire, che possono essere selezionate in base al modello desiderato: severe, creative, permissive. E che sono caratterizzate da un'obsolescenza programmata: dopo pochi anni, iniziano a decomporsi e in questo modo l'azienda che le produce può venderne continuamente di nuove.

A raccontare questa storia, che galleggia e metà tra il distopico e il fantascientifico, è la protagonista, Mara. La loro ultima Lio, Iside, non sembra "scadere" come le altre e inizia a comportarsi in modo strano. Sembra quasi che si sia messa a pensare autonomamente.

mamma in polvere

Cosa fare? Chiamare i giornalisti? Contattare l'azienda? Mamma e papà di Mara cercano una soluzione pratica e utilitaristica, vogliono sfruttare l'eccezionalità della situazione ottenendo fama o denaro. Mara invece guarda nel cuore della sua Lio e decide di salvarla.

Inizia così un'avventura mozzafiato: Mara e il fratello Michele cercano aiuto, inseguiti dagli scagnozzi della multinazionale che produce le Lio. Si rifugiano da un'amica, poi dalla nonna, infine da una famiglia che vive in montagna e gestisce un rifugio.

Inseguimenti, lotte e sparatorie, condite da immagini di forte impatto (come la Lio che perde un braccio) tengono con il fiato sospeso il lettore che così quasi non si accorge di quante riflessioni passino attraverso questa storia: il rapporto tra modernità e natura (conciliabili? inconciliabili? e come?), il peso del marketing nelle nostre vite, il valore dell'autodeterminazione, il rispetto della vita. 

Mamma in polvere unisce soluzioni originali a una trama avvincente, con personaggi interessanti come la nonna, antica e moderna al tempo stesso, che vive nella natura ma pratica arti marziali e ha un fidanzato giapponese. E non manca l'elemento romantico, con l'incontro tra Mara e il figlio degli amici della nonna.

Appare un po' troppo stereotipata, invece, l'immagine della mamma troppo concentrata su se stessa, che trascura i figli per inseguire i suoi sogni di successo. 

Ma l'umanità prevale, reale o artificiale che sia.


Ci sono due modi in cui guardiamo il cielo: uno è quello romantico, estatico, contemplativo di chi si perde nella bellezza, l'altro è quello scientifico, indagatore, di chi cerca le leggi dell'universo.

Sono davvero due sguardi opposti e inconciliabili?

notte piena di promesse

Da grande appassionata tanto di scienza quanto di storie, La notte è piena di promesse mi ha affascinato proprio per questo: per la sua capacità di fondere questi due sguardi in uno, di comunicare quanto la scienza possa essere poesia.

L'albo, scritto dal ricercatore in biologia Jérémie Decalf e pubblicato in Italia da Terre di mezzo editore, si apre con un cielo stellato nero e due sagome, forse un padre e un figlio, che lo ammirano con il naso all'insù. È con questa immagine che racconta il desiderio umano di andare oltre il proprio orizzonte ("Fatti non foste..."), e alla terza pagina si rivela con un particolare insospettabile.

notte piena di promesse

A parlare non è un umano: l'albo è narrato in prima persona da Voyager 2, una delle prime sonde inviate a esplorare il sistema solare, lanciata nel 1977 e ancora oggi attiva, l'unica ad aver "visto da vicino" Urano e Nettuno.

Un artefatto umano ma sul quale riponiamo così tanti sogni e interrogativi che non ci sembra strano dargli un'anima, in questa narrazione.

notte piena di promesse

Attraverso grandi tavole e pochissime parole dal tono evocativo, ne seguiamo il viaggio, ci perdiamo con lei. Ci sembra di sentire il silenzio, di percepire lo smarrimento dato da un luogo che non ha sopra né sotto, e poi lo stupore, la magnificenza dei pianeti che avvista, l'inesorabilità del suo proseguire lungo il suo viaggio, verso l'ignoto.

Le immagini ci mostrano la sonda dall'esterno, ma è suo il punto di vista (in gergo cinematografico, si chiama "semisoggettiva"), è lei che ci porta dove nessun uomo è mai stato.

notte piena di promesse

Nelle parole di Jérémie Decalf, Voyager 2 si meraviglia, si pone interrogativi, ma sono la nostra meraviglia e le nostre domande che si rispecchiano in lei.

L'ampio respiro delle illustrazioni trasmette sensazioni forti. Sembra incredibile, ma percepiamo l'emozione e le sensazioni intime di un oggetto che, in quanto tale, non può averne.

La notte è piena di promesse non è un libro divulgativo: le informazioni che fornisce sono poche e frammentarie, ma è potente, a partire dal fascino della copertina scura con lucidature, nell'infondere emozione, nel raccontare l'incontro di quei due sguardi: la sete di conoscenza e la sete di bellezza, che in fondo sono tutto ciò che ci rende umani.


Il bambino piantò un seme di carota.

È poco più di una frase minima: soggetto, verbo, oggetto, specificazione.

Eppure in queste poche parole troviamo il nucleo di tutto questo straordinario libro: c'è il protagonista (il bambino), la sua azione, all'attivo, perché sarà lui con la sua volontà, la sua caparbietà e i suoi gesti a dare forma alla storia, e c'è il tema centrale di tutta la narrazione: quel seme. Ogni cosa è essenziale.

Solo quella specificazione "di carota" non cambia la sostanza dei fatti, ma è un dettaglio che nutre l'immaginario. Poteva essere un seme qualsiasi, invece ora possiamo visualizzare bene cosa vuole diventare "da grande" quel seme, e non è una pianta ornamentale, ma qualcosa di sostanzioso, di umile ma anche utile.

Un seme di carota

Ecco, Un seme di carota è tutto in questo incipit: la sua prosa misurata, fatta di pochissime parole ben scandite, che lascia il tempo di pesarle una ad una, un'illustrazione semplice su fondo neutro di cui possiamo leggere ogni dettaglio, e qualche piccolo particolare che passa quasi inosservato ma che dà corpo e forza alla storia.

Un seme di carota è un piccolo classico. Lo scrisse Ruth Krauss e lo illustrò il marito Crockett Johnson (il "papà" di Harold, che non stenterete a riconoscere nei tratti di questo bambino), fu pubblicato nel 1945 e oggi arriva in Italia grazie a Topipittori, senza aver perso la sua potenza.

Un seme di carota

 

La mamma gli disse "Non credo che germoglierà"

(...)

E suo fratello gli disse: «Non germoglierà».

I dettagli, dicevamo. Come la delicatezza che adoperano i genitori nel dargli la loro opinione (in inglese è "I'm afraid it won't come up"), e che invece il fratello non si cura di usare.

Delicato o meno, il parere di tutti è concorde: il seme non germoglierà. Ma al bambino non importa. Non si lascia scalfire dalle opinioni degli altri: la sua espressione quasi non muta lungo tutta la durata del libro. Il suo sguardo si volge a loro, segno che li ascolta, eppure va dritto per la sua strada, prendendosi cura del suo seme, innaffiandolo e togliendo le erbacce. 

A questi gesti di cura sono dedicate le frasi più lunghe, che spezzano il ritmo delle sentenze per dare conto di un lavoro meticoloso e amorevole. È la cura che spezza le catene dell'inevitabilità, e la prosa ne tiene conto, dandole un respiro più dolce.

Un seme di carota

Un seme di carota è un albo brevissimo e lineare, che arriva dritto al punto.
Ci racconta la caparbietà, l'importanza dei gesti di cura, la forza della determinazione nel perseguire i propri progetti.

Un piccolo gioiello che parla poco ma ha (ancora) molto da dire.


Alzi la mano chi a volte ha l'inconfessabile speranza che succeda qualcosa, qualcosa di negativo, anche se non troppo, pur di saltare un giorno di lavoro.

Lo vedo che non l'avete alzata. D'altra parte non sarebbe "inconfessabile", altrimenti, ma so che almeno una volta vi è capitato.

 Una buona ragione

E probabilmente è capitato anche ai vostri figli, che non stanno certo bene con la febbre (e poi ci sono tutti quei compiti da recuperare!), ma almeno per una volta vorrebbero godersi una mattina più lenta, in cui stare a letto un po' di più, senza corse e lezioni.

È così che la pensa l'asinello protagonista di Una buona ragione, di Matteo Razzini e Beatrice Zampetti (Zoolibri): è stanco di doversi svegliare così presto per andare a scuola.

Una buona ragione

Sa benissimo che i suoi genitori non gli permetteranno di restare a letto in qualsiasi caso, perciò rimane un po' stupito quando la mamma propone:

"Dammi una buona ragione
e potrai restare a letto."

Davvero? Basta soltanto trovare una buona ragione?

Che problema c'è? Ogni bambino che si rispetti è pieno di buone ragioni per restare a casa da scuola.
È così che inizia una carrellata di scuse, scene e scenette: l'asinello è ammalato, anzi no: è rimpicciolito, anzi, no: è capitano di una nave pirata. Fino al divertente finale, l'asinello continuerà a impegnare il proprio ingegno e la propria fantasia, ma nessuna di queste, alla mamma, sembra una buona ragione.

Una buona ragione


Il fatto è che il senso del dovere di un bambino è molto diverso dal nostro, e poi in fondo, come dicevo, non capita anche a noi di desiderare una tregua?

Matteo Razzini e Beatrice Zampetti non giudicano, ma accolgono questa necessità del bambino e la sua frustrazione nel non vederla accolta e le interpretano con ironia e complicità.

Sono i risguardi a chiudere la storia raccontando il bello di una giornata senza scuola. Anche ai grandi, tutto sommato, la cosa non dispiace affatto.




La prima cosa che si nota di questo libro è anche ciò che più ne caratterizza la cifra stilistica.

Presto, presto, presto! è un esempio da manuale di come la sostanza, a volte, stia quasi tutta nella forma.

presto presto presto

 

Non è tanto la trama, infatti, a comunicare, in questo albo di Clotilde Perrin edito da Franco Cosimo Panini, quanto la struttura fisica dell'albo e la grafica con cui sono impaginate le parole.

Presto, presto, presto! è prima di tutto un libro larghissimo: 30 cm per soli 11,5 di altezza. Aperto, è una sottile striscia lunga più di mezzo metro.

Cosa comunicano queste proporzioni? Uno spazio da attraversare, di cui si fatica a vedere la fine, ma anche una linea temporale, quella in cui si muove il protagonista (ma potrebbe essere anche una protagonista).

presto presto presto

La forma, dicevamo: non si tratta solo della forma del libro, ma anche di quella della prosa, fatta di un lungo periodo, incalzante, impaginato tutto su un'unica riga, in cui in prima persona si descrive una corsa contro il tempo.

Non c'è, come accade di solito, un adulto a dettare i tempi. Non c'è conflitto generazionale.
Qui è il protagonista ad avere fretta, a inanellare una dopo l'altra, senza lasciare respiro (neanche al lettore!) tutte le azioni necessarie.

La catena del percorso si fa via via più improbabile, e così dal quotidiano (la casa, la strada, l'autobus il cui autista suona il clacson per districarsi nel traffico) si passa allo straordinario, con una barca e infine un aereo, sul quale però, per un soffio, il protagonista non riesce a salire. Dove sarebbe dovuto andare? Non lo sapremo mai, non ha importanza.

presto presto presto

Qui l'albo cambia passo, si trasforma nel suo opposto. Pur mantenendo una prosa essenzialmente paratattica, fatta di un unico, lungo elenco, l'impaginazione del testo invita a una lettura più lenta.

Mentre il protagonista, non più trascinato dall'urgenza, riscopre i dettagli del mondo attorno a sé, ripercorrendo al contrario la strada verso casa, il lettering si fa più leggero e meditativo.

presto presto presto

Le parole si appoggiano sugli oggetti che indicano, prendono la forma del loro movimento, si sparpagliano sulla pagina facendo vagare l'occhio qua e là, così come il bambino vaga ora nel mondo, senza più correre, assaporando ogni cosa.

La lunga linea del tempo riscopre la lentezza, e con essa la meraviglia.

PS: quel po' di conflitto generazionale tra tempo adulto e tempo bambino, assente nell'albo, lo troviamo, dolce e ironico, nella dedica, in realtà una citazione della figlia dell'autrice:

Smettila di dirmi di sbrigarmi,
non ho ancora finito di giocare!


Tutto è magia, per i più piccoli, perché il mondo è ancora tutto da scoprire.
Ma la magia di una formula magica ha un suo fascino indiscutibile, che rende più credibili anche i gesti più banali (avete mai provato ad accompagnare un bacino passatutto a una frase speciale?).

maga mu

Julia Donaldson, maga delle parole che non ha bisogno di grandi presentazioni, e la matita vivace di Nick Sharrat, che avevamo conosciuto in Il gatto e il re e il drago sputafuoco, hanno unito la magia dei giochi di prestigio e l'effetto magico delle finestrelle da aprire in Maga Mù, un divertente cartonato per coinvolgere i bambini, dai due anni, nella lettura.

maga mu

Maga Mù Ã¨ una maga pasticciona, che cerca di far apparire un coniglio ma non ci riesce mai.

È il bambino, insieme al lettore, a sollevare le finestrelle per verificare il risultato dell'incantesimo della mucca, che non è mai quello sperato: sotto il cappello ci sono dei fiori, sotto la tovaglia un maialino...

maga mu

Il gioco della scoperta si accompagna alla piacevolezza della formula in rima (magari mimata con dei gesti), che aggiunge divertimento alla lettura ma crea anche attesa, come se il sollevamento della finestrella diventasse un momento rituale.

Non so se vi è mai capitato, con i bambini, che il ditino arrivasse alla finestrella troppo presto rispetto a quanto il testo richieda: ecco, in Maga Mù i tempi sono scanditi dalla recitazione della formula, dal tono di voce che si chiude, perciò il bambino saprà attendere il momento giusto, e poi ridere (anche se è già la ventesima volta che lo leggete e quindi lo sa già!) del pasticcio combinato dalla mucca.

Il linguaggio semplice, le immagini nette e ben delineate, le pagine cartonate lo rendono accattivante per i piccoli, che impareranno presto a memoria il testo per poi "leggere" da soli.

È più magico lo spettacolo del prestigiatore o il libro che lo racconta?


Nessun robot è stato discriminato per scrivere questo libro. Lo dico perché nonostante il titolo possa sollecitare accuse di... ehm... "microchip shaming", Perché i robot sono stupidi? racconta l'intelligenza artificiale con un approccio aperto ed eclettico, raccontandone i limiti ma soprattutto valorizzandone le potenzialità.

teste toste - i robot

Perchè i robot sono stupidi? E tante altre domande sulla robotica è un saggio della collana Teste toste di Editoriale Scienza, in cui Federico Taddia, con la sua arguzia e il suo umorismo, intervista esperti e divulgatori ponendo domande curiose e originali e sviscerando temi, dettagli e aspetti poco noti dei temi più attuali.

Qui, l'intervistata è Barbara Mazzolai, ricercatrice nell'ambito della robotica.

teste toste - i robot

Come tutti i volumi della collana, Perchè i robot sono stupidi? è composto da capitoli interconnessi ma abbastanza indipendenti l'uno dall'altro, tanto da poter essere letti nell'ordine preferito. Al termine di ogni capitolo, un box rimanda agli argomenti correlati a quello appena letto, in una logica ipertestuale e non lineare, che rende la lettura più movimentata.

teste toste - i robot

I temi affrontati vanno dalle curiosità sulla robotica quotidiana (come funziona un assistente vocale?) a questioni più astratte e filosofiche: i robot sono intelligenti? e cos'è l'intelligenza? e la creatività? l'umorismo?

Sì, perché per capire a fondo le logiche di una macchina che vorrebbe imitare l'uomo bisogna prima capire quelle dell'uomo stesso. È così, attraverso questo dialogo incalzante, chiaro e articolato, che leggendo afferriamo il senso di questi esseri così diversi e così uguali da noi.

Scopriamo peraltro che, al di là del nostro immaginario che li vede come esseri antropomorfi, o tutt'alpiù supereroi alla Gundam, i robot sono una popolazione quantomai variegata, che può imitare anche animali, piante o batteri. Senza peraltro perdere il suo indiscutibile fascino sui bambini.

teste toste - i robot

Dillo con un algoritmo


Chi ha detto che per fare codig è necessaria un'attrezzatura particolare?

Prima ancora di essere utilizzati per istruire una macchina, gli algoritmi sono semplici procedure, che possono essere usate anche dell'uomo, anche per gioco.

Giocate in coppia e provate a fingervi robot e programmatore: il robot eseguirà solo le istruzioni fornite dal programmatore. Iniziate con comandi semplici (ad es. camminare dalla camera alla cucina, con una sequenza di passi dritti, a destra o a sinistra) e poi complicate le cose con azioni più complesse (ad es. preparare la tavola o lavarsi i denti) o con istruzioni condizionali (se... allora... altrimenti...).

Quando è il vostro turno di fare il robot, ricordate di eseguire e non pensare! Se non vi viene detto di fermarvi, andate a sbattere contro il muro e magari continuate a camminare come se steste cercando di attraversarlo.

È dagli errori che si impara di più (e che si ride meglio).


C'è una cosa che adoro di Hervé Tullet: il modo in cui fa sembrare tutto molto semplice. Chiunque, con lui, può sentirsi un artista.

colori tullet

Con i miei figli abbiamo sperimentato questa sensazione con La cucina degli scarabocchi e poi, durante il lockdown del 2020, seguendo la sua serie L'Expo idéale e realizzando la nostra piccola mostra d'arte casalinga.

In Colori, Tullet unisce questa vocazione con l'intuizione che più lo ha reso famoso nel mercato editoriale, quella di rendere i libri interattivi (conoscete tutti Un libro, vero?).
Edito inizialmente come albo illustrato con copertina rigida, Colori oggi trova una nuova vita in versione cartonata, "per piccole mani", come recita la copertina.

colori tullet

Una scelta quantomai adatta, perché Colori Ã¨ un libro da toccare, strofinare, maneggiare, "sporcandosi le mani", anche se solo virtualmente, in perfetto stile Tullet.

Dopo un "rito" di iniziazione per rendere la propria mano magica (una soglia importante da oltrepassare per permettere al bambino di sospendere l'incredulità e godersi pienamente il meccanismo dell'interazione), il libro invita il bambino a toccare un colore e mescolarlo all'altro, per poi scoprire nella pagina seguente il risultato.

colori tullet

Gli esperimenti proseguono, e scuotendo il libro, inclinandolo per far colare il colore, chiudendo due pagine una sull'altra si sperimentano le modalità di creazione dei colori secondari a partire da quelli primari.

colori tullet

I gesti sono semplici (ma sufficientemente vari tra loro da non annoiare), i risultati stupefacenti.
Il libro finirà in mano ai vostri bambini, che vorranno sperimentarlo da soli (ecco l'importanza del cartonato!).

L'incredibile diventa semplice, il semplice diventa incredibile.
Tutti possono diventare maghi dei colori, anche senza aprire i tubetti delle tempere (dopo la lettura, però, ogni tanto fateli pasticciare con i colori veri!).


Poche coppie comiche (forse nessuna) ci hanno fatto ridere come Orso e Anatra.

ti voglio bene

Buonanotte ci aveva folgorato con i suoi tempi comici perfetti, con la sua teatralità ideale da recitare ad alta voce, e con un neanche troppo sottile (ma mai esplicito) parallelismo con il rapporto tra genitore che vuole dormire e figlio che vuole giocare.
Ritroviamo molti di questi tratti in Ti voglio bene, in cui Jory John e Benji Davies riportano in scena (è il caso di dirlo) gli stessi protagonisti, sempre per Il Castoro.

Rivediamo quindi quasi invariati i contrasti tra Anatra, delizioso e irrequieto tormento, e Orso, la paciosa spalla comica del duo.

ti voglio bene

Questa volta Orso ha voglia di passare "una bella mattinata pigra in casa", mentre Anatra è decisa a trascinarlo in una bella passeggiata.

ti voglio bene

Vediamo ripetersi gli stessi meccanismi e perfino gli stessi tormentoni: Anatra che propone e che insiste da un lato, e dal'altro i "no" ripetuti di Orso e il suo "L'hai già detto" quando Anatra, nella concitazione, si ripete.

ti voglio bene

Di diverso, stavolta, c'è soltanto una più spiccata impronta affettiva.

In più di un'occasione, Anatra si giustifica spiegando "Voglio solo esserti simpatica" e Orso le ripete  "Ma tu mi stai già simpatica", e la rassicura sul suo affetto.
Non so quanto un bambino lo possa cogliere, ma è evidente il richiamo alle mille volte in cui un adulto non ha voglia di giocare perché ha bisogno di un po' di tempo per sé: chi si vuole bene non deve stare sempre necessariamente insieme, sembra dire questo albo, con un messaggio che forse rassicurerà più i genitori che i bambini.

Ma Orso e Anatra sono così simpatici che i bambini perdoneranno il tentativo di far passare una morale tra le loro battute.


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Eccomi

Copywriter e anche un po' account, co-autrice di fumetti, dilettante (ma appassionata) del fai da te, navigatrice compulsiva, divoratrice di libri e di serie TV. Divido la casa con un marito, tre figli e parecchi gatti di polvere.

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