La pagina bianca, metaforica o letterale che sia, è l'inizio di ogni atto creativo.
Harold e la matita viola inizia appena un passetto più in là: da una pagina già scarabocchiata.
Da qui, il piccolo Harold inizia a organizzare il suo gioco, prima casuale, e creare la sua passeggiata. Con la sua matita in mano, disegna la strada su cui passeggia, tutti i paesaggi che incontra, e poi veicoli, scenari e comparse della sua avventura notturna.
Harold e la matita viola è un piccolo capolavoro dell'americano Crockett Johnson, riportato in Italia dopo molti anni di assenza in una curatissima edizione di Camelozampa (prendetela in mano e godetevi la qualità della carta e l'effetto gommato della copertina), con l'attenta traduzione di Sara Saorin.
Stiamo parlando di un albo del 1955, ma che conserva intatta la sua forza narrativa, fatta di segni grafici minimali, un'idea creativa semplice ed efficace e una profonda immedesimazione nel sentimento infantile.
Bastano due colori che si esprimono in tratti semplici e netti, per raccontare l'avventura di Harold: il marrone scuro del protagonista (lo stesso usato per il testo) e il viola della sua matita e dei segni che traccia.
L'espressione di Harold muta pochissimo da una pagina all'altra: pochi tratti bastano per esprimere il suo impegno nel gioco, la sua curiosità verso ciò che sta facendo, il suo candore. Il suo pigiama bianco lo rende ancora più neutro, ancora più adatto ad essere inserito in qualsiasi contesto, qualsiasi avventura si possa immaginare.
Il congegno narrativo, che vede Harold disegnare le stesse avventure che vive, solo all'apparenza si ripete uguale a se stesso. In realtà, ogni scena vede nascere una piccola variazione nel meccanismo creativo del bambino.
La parabola del racconto vede il piccolo protagonista guidare il gioco con sicurezza, per poi finire sopraffatto da esso, prima di riuscire a riprendere in pugno la situazione. Nel climax dell'avventura, a Harold trema la mano, tanto che senza rendersene conto disegna le onde di un oceano nel quale rischia di annegare.
Così come le immagini, anche le parole di Harold e la matita viola sono misurate, esatte, perfettamente cucite sul racconto.
In
tutto il testo non viene mai usato il verbo "disegna": lo svelamento
della reale attività di Harold romperebbe l'incanto del suo gioco,
infrangerebbe la sospensione dell'incredulità che è propria di Harold
stesso, prima ancora che del lettore.E così, Harold "fa" un albero e "scopre" che si tratta di un melo, quasi come la sua matita agisse per volontà propria.
E quando "fa" una barca, non disegna la vela, ma la "issa", come fosse una vela reale e non un semplice segno della sua matita.
La luna, primo elemento che Harold disegna, resta la costante del suo gioco, l'elemento che gli consentirà di restare ancorato alla realtà.
Harold e la matita viola raccoglie un compendio dei meccanismi di ogni gioco di fantasia: l'immersione totale nel mondo della fantasia, il compiacimento del bambino di fronte alla propria creatività, lo stupore, lo smarrimento di quando la storia creata prende il sopravvento e, per un attimo, esce dal controllo del suo creatore, fino alla noia e al desiderio di chiudere la storia.
Non stupisce che questo albo si sia mantenuto così giovane nonostante gli anni, perché è un albo eterno, come eterni sono il gioco e la fantasia.
È talmente potente l'idea di poter disegnare il proprio mondo e interagire con esso, che abbiamo voluto provarci anche noi. Sulla carta, naturalmente.
L'idea è ritagliare un personaggio da una rivista, un catalogo, un giornale, incollarlo su un foglio bianco e provare a immaginare tutto il resto.
Come primo personaggio, abbiamo scelto proprio Harold, ritagliandolo dal catalogo di Camelozampa (adoro i cataloghi delle case editrici: sono materia perfetta da ritagliare e riutilizzare).
Lo abbiamo portato nello spazio, a bordo di un'astronave, e poi gli abbiamo messo un pallone ai piedi, e una rete davanti.
Il nostro Harold non si è disegnato un portiere. Gli piace vincere facile.
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