Nuvole in scatola
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La prima volta che ho sentito parlare di coding riferito ai bambini ho avuto due reazioni contemporanee ed opposte. Il mio lato "montessoriano" ha pensato che ci sono già fin troppe occasioni, per i bambini, di avere a che fare con la tecnologia. Il mio lato nerd ha esclamato qualcosa tipo: "Bazinga!".


Riflettendo e informandomi meglio ho scoperto che fare coding non significa soltanto creare programmi, ma sviluppare un tipo di pensiero in qualche modo complementare a quello dell'immaginazione, ma altrettanto importante.
Significa imparare il concetto di sequenza e di istruzione.
Significa anche imparare a mettersi nei panni dell'altro, per quel che riguarda lo spazio (la mia destra e la mia sinistra non corrispondono sempre alle tue) ma anche le informazioni (anche voi avete bimbi che omettono sistematicamente il soggetto nelle frasi, convinti che abbiate in testa le stesse cose che pensano loro?).

A raccontare nel dettaglio ai bambini il mondo del coding è arrivato Apprendisti coder, un manuale giocoso edito da Editoriale Scienza, che offre una panoramica molto ampia su questo argomento, tra spunti teorici e molta pratica, sia offline che online.

Dopo una spiegazione di cosa sia il coding e delle sue possibili applicazioni, Apprendisti coder propone un primo esercizio, solo all'apparenza semplice, da fare in coppia, l'uno nei panni del coder, che dà istruzioni su un disegno, l'altro in quelli di un robot che lo esegue.

Emergono qui, già offline, moltissime cose a cui non siamo abituati a pensare. Il primo tentativo di disegno sarà difficoltoso, costringerà a riflettere sul modo in cui siamo abituati a dare istruzioni, e molto probabilmente finirà in un pasticcio (almeno, per me e il Piccolo T è stato così), ma già dal secondo tentativo gli scogli saranno superati e si imparerà a "pensare da programmatore".


Si passa poi a capire come "pensa" un computer, a partire dal sistema binario per accennare ai diversi linguaggi di programmazione.


Ed è qui che inizia la programmazione vera e propria: dalla teoria, il libro si sposta alla pratica, con un'introduzione a Scratch, ambiente di programmazione gratuito nato dal MIT a scopo didattico ed educativo.
Apprendisti coder ne spiega le basi e con esempi concreti accompagna il bambino alla creazione del suo primo progetto.


Spaziando poi dall'offline all'online e dalla teoria alla pratica (ci avete mai pensato? Anche imparare un ballo è una forma di coding), il libro spiega e poi applica concetti come i diagrammi di flusso, insegna qualche elemento di disegno e animazione, e anche applicazioni come la creazione di una musica, da tradurre anche in questo caso in un progetto Snatch.


Per finire, non manca un'introduzione all'html e alla costruzione di pagine web: un modo importante per far capire la struttura dietro a uno strumento che i bambini usano con sempre maggiore disinvoltura, ma spesso senza troppa consapevolezza.

A rendere ancora più piacevole e giocoso questo manuale, soluzioni cartotecniche come i robot fustellati da staccare e costruire per poi sfidarsi in una "gara di programmazione", poster e stickers da attaccare a ogni capitolo come segnale di "missione compiuta".
Così, insegnare il coding ngli anni della primaria diventa un gioco.

E prima? È possibile introdurre al coding, magari senza mettere le mani su tablet, smartphone o pc?
Certo che sì: lo si può fare giocando, e adattando la difficoltà del gioco all'età del bambino.
Bastano un foglio quadrettato e una matita per disegnare una matrice su cui spostarsi, ostacoli da evitare, un punto di partenza e un punto di arrivo, per "programmare" un percorso attraverso semplici istruzioni.
Se preferite, scaricate il mio pdf stampabile con una tabella, delle tessere da distribuire e due modalità diverse di gioco.


Potete giocare in due, insieme, impersonificando rispettivamente il coder e il robot: dopo aver posizionato inizio, obiettivo e i muri da evitare, il coder dovrà posizionare (prima sulla tabella, poi, una volta presa dimestichezza, al di fuori) le istruzioni che il robot dovrà seguire.

Oppure trasformate il gioco in una sfida uno contro uno, posizionando due partenze e un solo arrivo, oltre agli ostacoli in mezzo, e usando le frecce come carte da giocare.
Si inizia con tre carte-freccia ciascuno.
A ogni turno, ogni coder può usare il numero di frecce che desidera e poi ne pesca altrettante, in modo da averne sempre tre in mano.
Dopo averle messe giù nell’ordine desiderato, muove di conseguenza il suo segnalino.
Se non può fare nulla, il giocatore può scegliere di usare il proprio turno per scartare le sue carte e pescarne altre.
Vince il coder che arriva per primo al trofeo.

Allora: è vero o no che il coding è divertente anche per chi non è necessariamente nerd?


Apprendisti coder
Autore: Sean McManus
Illustratore: Rosan Magar
Editoriale Scienza
70 pagione, copertina flessibile.
Prima edizione: febbraio 2019

Nella stessa collana, Apprendisti scienziati, di cui vi avevo parlato qui.


 
Tra i tanti "perché" a cui un genitore deve rispondere nella vita, ce ne sono alcuni più difficili di altri, a volte semplicemente a causa della complessità dell'argomento, spesso perché certe domande portano con sé un carico emotivo molto pesante da gestire.

La morte è sicuramente una di queste.
Ricordo che a un incontro Nati per Leggere per genitori una psicologa ci disse che è meglio anticipare certi temi ai bambini, in modo da lasciare che li elaborino e familiarizzino con essi prima di trovarcisi di fronte.
In soldoni: meglio non correre ai ripari comprando un libro sulla morte quando il nonno è malato e sta per andarsene, ma presentarglielo in un momento emotivamente più neutro.


Tra tutti i libri sul tema rivolti ai bambini, quello che preferisco, per la sua delicatezza e per il suo messaggio positivo, è L'ultimo canto.
L'autore Pablo Albo inizia tratteggiando un minuscolo paesino: una strada, cinque case, pochi abitanti, ognuno con una caratteristica peculiare. Il dipinto morbido dai toni scuri di Miguel Ángel Díez infonde una sensazione di pacata serenità, come di un villaggio fuori dal tempo, o forse fermato a un'antichità che non esiste più.


E come nei paesi di un tempo, infatti, ci si sveglia al canto del gallo.
Ma questo non è un gallo qualunque: quello di Filiberto e Sacramento è il primo gallo tenore al mondo, e ogni mattina sale sulla cima del campanile e sveglia il paese intonando "O sole mio".


Un giorno, però, il gallo non si sveglia più. L'albo non usa mai la parola "morte":

Una notte chiuse gli occhi per dormire 
e la mattina dopo si scordò come si faceva per aprirli,
o forse decise di continuare a dormire per sempre... chi lo sa?

Come la vita nel paese, anche la sua fine è delicata e serena: il gallo, dal viso antropomorfo e con i capelli ormai bianchi, sorride nell'ultima scena in cui lo vediamo vivo, e la gente del paese ricorda di aver notato come ultimamente fosse molto stanco.

Meravigliosa l'immagine del corteo che accompagna il gallo verso la sua sepoltura: tutto il paese lo amava.


Resta però il problema di svegliare gli abitanti, d'ora in poi.
Viene indetta una selezione e ogni giorno qualcuno prova a salire sul campanile a dare la sveglia, ma grillo e formica hanno una voce troppo flebile, il signor Giacomo è troppo stonato e così nessuno sembra degno di sostituire il gallo.


Finché, la domenica successiva, un giovane gallo sale sul campanile, timido ed emozionato, e intona il suo "O sole mio": è il figlio del gallo di Filiberto e Sacramento, di cui fino a questo momento ignoravamo l'esistenza, e da lui ha ereditato il talento canoro.

Quello che amo di L'ultimo canto è proprio questa prospettiva: la morte è vista attraverso l'eredità immateriale lasciata a chi resta. Il gallo vive nel ricordo di chi resta e negli insegnamenti lasciati al figlio. La morte è una mancanza, ma anche una presenza.
Non è la fine, perché se lasci un segno nel mondo, in quel segno continui a vivere.


Fare divulgazione non è tanto una questione di cosa dire, quanto di come.
Non c'è argomento che sia troppo ostico se affrontato con la chiave giusta. Se penso funzionamento del corpo umano, due esempi di divulgazione d'eccellenza sono sicuramente il cartone animato Siamo fatti così e la serie La macchina meravigliosa in cui un Piero Angela "miniaturizzato" andava ad esplorare organi, tessuti e cellule. In entrambi i casi, la chiave del loro successo e della loro efficacia non era la semplificazione, ma il format, che rendeva accessibili e accattivanti anche concetti complicati.


Lo spettacolo del corpo umano (edizioni Il Castoro) dell’autrice e illustratrice americana Maris Wicks, specializzata nella divulgazione scientifica, va nella stessa direzione, trovando un format del tutto inedito per raccontare il funzionamento del corpo umano: il fumetto.

Il libro è strutturato come un vero e proprio spettacolo teatrale, il cui mattatore è uno scheletro con un senso dell'umorismo tutto suo.


Ogni capitolo, o meglio, ogni "atto", è dedicato a un diverso apparato, e lo scheletro di volta in volta si veste o si sveste per mostrarne il funzionamento.



Come dovrebbe fare ogni buon testo divulgativo, Lo spettacolo del corpo umano non riassume, ma affronta con accuratezza ogni aspetto, rendendo più leggera la lettura non con la semplificazione dei contenuti, ma attraverso la loro forma, come quando, nel presentare la composizione delle cellule, lo scheletro inizia a chiacchierare con l'apparato del Golgi.


A questi siparietti si alternano immagini più usuali per un testo scientifico, ma mai in numero tale da rendere pesante la spiegazione.


Di ogni apparato, lo scheletro ci presenta sia la fisiologia che la patologia, trattando ad esempio di asma quando parla di respirazione o di allergie per il sistema immunitario.
Come nel cartone animato Siamo fatti così, tra i personaggi troviamo anche i virus, anche qui animati ma in forma più filologicamente corretta e simile al vero.

Non mancano trovate e siparietti divertenti, come quando, per raccontare i cambiamenti della pubertà, lo scheletro tira fuori dal cilindro i peli.


O quando seguiamo il viaggio di un sandwich lungo l'apparato digerente, dalla bocca... al wc.


Leggerezza, quindi, ma non superficialità, perché nelle sue oltre 220 pagine Lo spettacolo del corpo umano non trascura nulla, comprese curiosità su cose che facciamo o ci accadono, come gli sbadigli o il singhiozzo, e piccoli consigli quotidiani su alimentazione e abitudini sane.

A proposito di scheletri, muscoli e articolazioni, lo sapete costruire con vostro figlio un modellino di mano con i suoi movimenti?
Si inizia ricalcando la mano su un cartoncino.


Poi si tagliano delle cannucce per riprodurre le falangi: saranno due per il pollice e tre per le altre dita, più altre corrispondenti sul palmo.
Con del nastro adesivo, si fissano le cannucce alla mano di carta e poi si fa passare attraverso dello spago, che si blocca con altro scotch sulla punta delle dita.


Tirando i fili (ovvero flettendo i muscoli) le dita si muoveranno proprio come quelle di una mano vera.


(attenzione: pericolo gestacci)


Ci sono molte ragioni per le quali nelle scuole di quasi ogni ordine e grado si sta diffondendo la pratica dell'orto di classe. Una di esse è che l'orto è una metafora molto potente della crescita, di come con le giuste cure e seminando bene, la terra possa dare i suoi frutti. Ma forse un orto può essere anche qualcosa di più.


L'orto di Simone, brillante esordio dell'argentina Rocío Alejandro (Kalandraka), inizia in un modo solo apparentemente banale, con un coniglio che all'arrivo della primavera prepara il suo orto.

Notiamo subito un utilizzo creativo della prospettiva e dello spazio-pagina. Se i personaggi sono rappresentati frontalmente, in modo tradizionale, l'ambientazione è vista in pianta, dall'alto.
In questo modo, la recinzione dell'orto forma una cornice che racchiude la superficie della pagina.


Uno spazio sicuro, ben delimitato, chiuso agli attacchi esterni, nel quale Simone inizia a coltivare le sue carote.


Simone ara, semina, raccoglie, e proprio al momento della raccolta arriva il suo amico Paolo, che offre il proprio aiuto e, come spesso accade, anche qualche consiglio non richiesto, come quello di seminare la lattuga.

Il piccolo spazio sicuro di Simone si apre. Il contorno così solido si rompe e il terreno da lavorare invade la pagina di sinistra, finora riservata alla parte testuale del libro.


E come Paolo, altri amici di Simone arrivano e iniziano a piantare pomodori, melanzane, mais.
Simone, naturalmente, non è particolarmente felice di questa intrusione, e lo esprime, pur senza riuscire a imporsi, ricordando che quelle sono le sue carote.

L'orto continua ad aprirsi fino a coprire completamente l'altra pagina, e Simone scompare: si sarà arrabbiato?


A sorpresa, Simone torna, non più contrariato, portando il cartello "l'orto di tutti".
Ora lo spazio tradizionale del libro non basta più: per contenere tutte le piante le pagine raddoppiano e si aprono creando un effetto poster.



Aprire il proprio orto, abbattere gli steccati, confrontarsi con l'esterno richiede uno sforzo (l'autrice lo comunica con sincerità: Simone in un primo momento è visibilmente seccato), ma alla fine è dalla condivisione e dalla cooperazione che nasce il risultato più ricco.

Originale ed efficace la cifra stilistica delle immagini: Rocío Alejandro usa una tecnica a timbri, che risalta soprattutto sulle verdure coltivate, e solo due colori principali (nero e arancione) nelle loro sfumature. La texture di carta millimetrata con cui rappresenta la terra arata sottolinea quell'ordine matematico perfetto che verrà poi stravolto dall'arrivo degli amici.

L'idea del libro, nata dall'osservazione degli orti comuni del suo quartiere, e la sua realizzazione grafica, danno profondità a un tema che era già stato ampiamente sviscerato, ma con una semplicità che lo rende adatto alla lettura anche da parte dei più piccoli, a partire dai tre anni.

E non c'è niente da fare: a me quella carta millimetrata, quell'ordine perfetto così stravolto e migliorato dalla collaborazione, ha messo voglia di giocare.
È così che è nato

Il gioco del dado e dell'orto


Due cose non mancano mai a casa mia: un dado classico e un po' di nastro biadesivo per personalizzarlo.
E così basta ricoprire le sue facce con delle verdure (due cespi di insalata, due rape, una carota e una luna, poi capirete perché), preparare una tabella-orto e alcune tessere-verdura (trovate tutto nel mio pdf stampabile) per iniziare il proprio orto, con due modalità di gioco.


Gioco tradizionale.

A turno ogni giocatore lancia il dado. Se esce una verdura, prende una tessera e ricopre uno degli spazi della propria tessera-orto.
Ogni tessera ha tre file, una per verdura.
Se esce luna, è notte: non si può lavorare. Il giocatore salta il turno.
Vince chi riempie per primo il proprio orto.


Gioco cooperativo.
(più fedele allo spirito del libro)

Scopo del gioco è completare l'orto prima che il giorno finisca e arrivi la luna.
A turno ogni giocatore lancia il proprio dado. Se esce una verdura, prende una tessera e ricopre uno degli spazi della tessera-orto comune.
Ogni tessera ha tre file, una per verdura.
Se esce luna, il giocatore prende una tessera-sole e riempie uno degli spazi della tabella-giorno.
I giocatori vincono se riescono a completare la tabella-orto prima che sia completata la tabella-sole (e sia dunque arrivata la luna).

Iniziate così, per prendere confidenza con le regole, poi buttate via le tabelle e le tessere e giocate con una matita su un foglio quadrettato: progettate il vostro orto nella forma che volete, e le verdure disegnatele a mano.
Coltivate in questo gioco anche la vostra creatività.


 
Quando inventavo le mie avventure e i miei giochi, da bambina, tra i protagonisti c'erano amici, compagni di classe, cani, scienziati, cantanti e unicorni, ma mai, proprio mai i miei genitori.
Non che non li amassi, intendiamoci, ma non c'è spazio, nell'anarchico regno della fantasia, per chi mette (giustamente) regole e paletti.


Non c'è spazio per i genitori (perlomeno, non per i suoi) nemmeno nelle avventure del piccolo protagonista di Pluk e il Grangrattacielo, il primo romanzo illustrato pubblicato dalla giovane e attenta casa editrice LupoGuido.

Pluk è senza casa ma ha un carro attrezzi rosso. Dalle illustrazioni si direbbe un carro attrezzi giocattolo, ma il testo non lo specifica mai, né parla di motori o pedali, e comunque tutti gli adulti sembrano prenderlo sul serio.
Pluk è senza casa, dicevo, ma per sua fortuna c'è la torretta del Grangrattacielo che è libera e sembra fatta apposta per lui. Non ci sono contratti di affitto o cavilli legali, in questo romanzo, così come non ce n'è nelle fantasie dei bambini, e così Pluk ci va a vivere e conosce tutto il favoloso microcosmo di questo grattacielo, sospeso tra realtà e fantasia.


Più che nelle vivaci avventure di Pluk, la forza di questo romanzo sta nei personaggi di cui esse sono costellate.
L'olandese Annie Schmidt, premio Andersen 1988, li racconta con tratti caricaturali densi di umorismo e Fiep Westendorp, per anni al suo fianco come illustratrice, ce li mette davanti agli occhi rendendoli ancora più irresistibili nel loro candore fanciullesco.
Favolosa è la signora Stralindo, fissata con le pulizie, che gira con la sua bomboletta spray e suoi impeccabili vestiti un po' rétro, e costringe la figlia Agatina a non sporcarsi mai.


Anche se i nostri preferiti restano i Fracassini, spettinatissimi bambini che vivono col papà in mezzo al disordine e alla confusione.


Ma sono capaci di pettinarsi e comportarsi in modo impeccabile quando devono convincere la signora Stralindo a mandare Agatina in vacanza con loro.


La città si direbbe polarizzata tra adulti che non ricordano di essere stati bambini, o che forse non lo sono mai stati, come la Stralindo, e adulti che in fondo lo sono ancora, come il papà dei Fracassini.

E questo microcosmo in cui bambini e adulti discutono alla pari e vivono le stesse avventure, vede tra i personaggi principali anche una curiosa carrellata di animali parlanti, dallo scarafaggio da compagnia di Pluk all'amica colomba, fino all'incompreso lupo marinaro, che tutti temono per un equivoco sul nome (ma sarà "marinaro" o "mannaro"?) e perché tempo addietro aveva mangiato un cavolo che era stato mangiato da una pecora (simpatica citazione del cassico rompicapo che strizza l'occhio agli adulti che leggono).


Come nelle storie di ogni bambino, in Pluk e il Grangrattacielo c'è un po' di magia, un po' di avventura, un po' di ecologia (l'ultima missione dei protagonisti è salvare un bosco), ma soprattutto un po' di sovvertimento delle regole, con il gioco che prende il sopravvento, come quando la marmellata di bambacche fa tornare bambini tutti gli adulti della città.
Pluk è in realtà un bambino molto assennato, come lo è ogni eroe nelle proprie fantasie, e dimostra spesso più pragmatismo di molti adulti.

Si direbbe che tutto il romanzo è una fantasia pensata dal protagonista stesso, ma in fondo questo non ha importanza, perché reale o meno, la storia ci tiene incollati fino alla fine, a parteggiare per i buoni e per i bambini.

Avvincente e allegro, Pluk e il Grangrattacielo è perfetto  per una lettura autonoma dai 7 anni o per una lettura condivisa dai 5 anni.

E se oltre alla lettura volete condividere con i bambini qualche momento di gioco sregolato, perché non etichettate un barattolo di marmellata come fosse a base di bambacche?
Potrete fare merenda insieme ai vostri figli e poi trascorrere un'ora di regressione in cui divertirvi alla pari con loro. Oppure, se preferite, potete inventare marmellate di pofbacche che vi fanno parlare solo con la O, oppure di boingbacche, che vi fanno camminare saltellando.


Perché se i genitori, nelle fantasie, non servono a nulla, nella realtà sono sempre i compagni di gioco migliori.

Pluk e il Grangrattacielo
Annie M.G. Schmidt (autrice)
Fiep Westendorp (illustratrice)
Valentina Freschi (traduttrice)
Formato: copertina rigida, 19 x 25 cm
204 pagine
Anno: 2018
(prima pubblicazione in lingua originale: 1971)


La domanda nasce inevitabile in chiunque ami una qualsiasi forma d'arte e stia crescendo dei figli: si può educare alla bellezza?
Può l'esposizione a bei libri, con bei testi, belle immagini e una grafica curata, far nascere in un bambino uno spirito critico che lo aiuti a sviluppare il gusto per la buona letteratura (e magari anche per la buona scrittura)?
E come è fatto un albo illustrato "bello"?



Mi sono posta queste domande molte volte. E per cercare di dar loro una risposta ho studiato, cercato, testato, curiosato, letto, e ho fatto tesoro delle indicazioni e dei suggerimenti di chi ne sapeva più di me, come una fantastica insegnante del corso per volontari Nati per Leggere e un'altrettanto fantastica bibliotecaria in un ciclo di incontri per lettori e genitori.

Ed è così che ho stilato una lista, non esaustiva e rigorosamente poco rigida, di caratteristiche che un bel libro dovrebbe avere o non avere, e che dovrebbero orientare la scelta su uno scaffale di libreria.

Belli fuori

Cominciamo dall'estetica, dalle cose che un libro ci comunica ancora prima di aprirlo e leggerne il contenuto. Come riconoscere un albo di qualità?

  • Non ha strass e glitter.
Pensateci: è come una donna con troppo trucco. Il dubbio che ci sia qualcosa da nascondere ci viene, no? (disse Elisabetta aggiungendo ancora un po' di correttore sulle occhiaie).
Le logiche di marketing spingono molte case editrici a imbellettare le copertine in modo che i bambini ne vengano attratti. Ma se ad attrarre sono più i brillantini del contenuto del libro, se la prima cosa che vedete sullo scaffale sono gli "effetti speciali" e non il titolo o l'illustrazione di copertina, tenetevi alla larga: molto probabilmente la casa editrice pensava che il contenuto da solo non bastasse, o ha selezionato il libro per un pubblico che i libri non li ama.

  • Non ha le ruote.

Stiamo parlando di un libro, giusto? E un libro ha pagine, copertina, risguardi, a volte alette da sollevare, ma di certo non ha ruote.
E non solo per il discorso fatto qui sopra sulle logiche di marketing e sui libri che "si travestono" per mascherare una scarsa qualità di contenuti, ma anche perché per educare un bambino ai libri, è necessario che abbiano forma di libri.
È vero, un bimbo sarà sicuramente attratto da un libro con le ruote, ma lo vedrà sempre per prima cosa come un giocattolo. Si concentrerà sulla sua funzione e non sull'oggetto-libro, con le sue pagine, la sua storia, il suo testo e le sue illustrazioni. Imparerà a divertirsi con il libro per quello che ci può fare, e non per il suo contenuto.

Quindi, se un libro ha le ruote, è una macchinina e non un libro.
Se un libro si gonfia, è un gioco da bagnetto e non un libro.
Se un libro ha zampe e orecchie, è un orsetto e non un libro.
Meglio comprare una bella macchinina, un bel gioco da bagnetto, un bell'orsetto.
Allora non esistono libri gioco? Certo che sì: esistono eccome. Da Un libro di Tullet a Il libro cane o Questo libro fa di tutto di minibombo, o Aiuto, arriva il lupo! di Ramadier e Bourgeau, di libri gioco ce ne sono tanti, vari, coinvolgenti e di qualità. Ma sono libri, appunto. E insegnano a giocare con l'immaginazione, e non con le ruote.

  • Non fa suoni.
Come sopra: un libro non parla e non suona, si fa leggere. Non ha pulsanti, ha la vostra voce.
Perché affidarsi a suoni metallici malriusciti e irreali quando potete essere voi stessi lo strumento?
E se pensate che in questo modo non si possano trasmettere con efficacia i versi, i rumori o la musica, provate a leggere L'uccellino fa..., a raccontare A caccia dell'Orso o a suonare con la vostra voce interpretando Squeak, rumble, whomp! Whomp! Whomp!.
Ogni volta in cui lo farete, non starete solo leggendo, ma starete insegnando a vostro figlio il potere dell'interpretazione, quello dell'immaginazione, quello della magia di un testo. E anche quello dell'amore (perché diciamocelo: voi siete molto meglio di un pulsante elettronico!).


Belli dentro

E adesso apriamolo, questo libro. Come si riconosce un contenuto ben fatto?

  • È scritto "bene".
Già, ma cosa significa scritto bene? 
Significa che utilizza grammatica, sintassi e punteggiatura in modo corretto, e fin qui ci siamo.
Ma significa anche che il testo ha un suo ritmo, una sua musicalità (e se il ritmo si interrompe, c'è un motivo). Che usa un lessico adatto ai bambini ma non per questo banale, senza paura di introdurre qua e là qualche parola "difficile", se il contesto aiuta a comprenderla. Che ha una struttura sintattica chiara e non ambigua. Che, se è in rima, rispetta una metrica e non si limita alle rime "facili", come i verbi all'infinito. Che ha una struttura narrativa comprensibile, senza salti che non siano colmabili dal contesto. 

Un pomeriggio super. Jessixa Bagley, Terre di mezzo Editore
  • È illustrato "bene".
Già, ma cosa significa illustrato bene?
Ok, questa è più difficile (sarà che in Italia si bada più alla cultura della parola che a quella dell'immagine).
Una buona illustrazione ha una complessità coerente con l'età di riferimento del libro (non usa ad esempio sfondi dettagliati e contorni sfumati per un neonato), è espressiva, trasmette lo stato d'animo dei personaggi e infonde sensazioni in chi legge, e soprattutto non è banale o fatta in serie: se trovate un orsetto che vi ricorda le decorazioni delle bomboniere o le copertine dei vostri quaderni di scuola, be', con tutta probabilità quella non è una buona illustrazione.
Illustrare bene non significa essere realistici, ma trasmettere qualcosa: meglio un segno all'apparenza maldestro e impreciso ma la cui imprecisione è espressiva, piuttosto che una perfetta imitazione della realtà, che resta sempre e comunque un'imitazione e basta.

  • Ha un rapporto non scontato tra testo e immagini.
Un albo illustrato non è un libro con le illustrazioni.
Parole e immagini dovrebbero lavorare insieme per raccontare una storia, colmando le une le mancanze delle altre (e possibilmente lasciando ancora qualche vuoto da colmare, perché i bei libri lasciano che una parte della storia se la racconti da solo il lettore).
Se le immagini servono solo a far visualizzare la storia a un lettore con poca immaginazione, o se le parole si limitano a descrivere ciò che già vediamo, il libro non sta facendo un buon lavoro.
È naturale che gli albi per i bambini più piccoli siano più esaustivi e meno aperti alle inferenze, ma diffidate sempre da quelli in cui il rapporto immagine-parola è un semplice 1:1.
(Una riflessione più approfondita sul rapporto tra testo e immagini in un albo l'avevo fatta in questo post.)

Questo non è il mio cappello, Jon Klassen, Zoolibri
  • Non usa stereotipi.
Se aprendo un libro trovate la mamma casalinga che cucina la torta, il papà sempre assente perché va a lavorare e magari figlio maschio che gioca con le macchinine mentre la femminuccia mette a nanna le bambole, richiudetelo e rimettetelo sullo scaffale.
Se presi in piccole dosi gli stereotipi aiutano la comprensione e sono necessari alla comunicazione e alla sintesi (quando vediamo un uomo con uno stetoscopio al collo comprendiamo subito che si tratta di un dottore), ma quando diventano l'asse portante di una storia, probabilmente qualcosa non va.
Una storia basata sugli stereotipi denota una scarsa immaginazione dell'autore e non rende nemmeno un buon servizio al lettore (e tantomeno alla sua coscienza sociale). Per essere credibile, un personaggio non può appiattirsi su un'immagine preconfezionata.
E anche se sembra paradossale, è molto più difficile identificarsi in un personaggio piatto e semplice piuttosto che in una "persona" con le sue sfaccettture, anche se diverse dalle nostre.
(Sui libri anti-stereotipi di genere trovate una mia riflessione qui).

  • Non riduce.
I tre moschettieri per un bambino di quattro anni, il giardino segreto per una bambina di cinque
(non parliamo poi del Piccolo Principe letto a bambini di età prescolare o poco più): a chi servono davvero? Ai bambini o ai genitori che hanno fretta di farli crescere? O forse solamente ai bilanci delle case editrici che li pubblicano?
È comprensibile: chiunque abbia molto amato un libro da bambino non vede l'ora di farlo conoscere ai figli. Ma che fretta c'è?
Se vi siete innamorati di una storia o di un testo, li avete amati per la loro ricchezza e in tutta la loro potenza espressiva, non certo per il mero elenco delle azioni compiute dai personaggi.
Che senso ha allora cercare la riduzione di un testo adattato a un'età diversa da quella alla quale era originariamente rivolto?
Che senso ha appiattire il linguaggio, eliminare sfaccettature, edulcorare scene dal forte impatto emotivo? Nella grande maggioranza dei casi, chi pubblica una riduzione lo fa unicamente per logiche di mercato e non certo per ragioni letterarie.
Impariamo l'arte della pazienza (non cerchiamo sempre di insegnarla ai bambini?) e aspettiamo il momento giusto per proporre ai nostri figli i libri nella loro versione completa e originale. Ci sono centinaia di bei libri perfetti per la loro età, ora, da non lasciarsi sfuggire.

  • Non è "tratto da"
Gli scaffali delle librerie (non tutte, per  fortuna) sono zeppi di libri tratti da cartoni, film o addirittura giochi per bambini.
Nella maggior parte dei casi, si tratta di riduzioni delle stesse storie già viste in tv o al cinema; storie quindi che hanno un testo pensato per essere interpretato e recitato in un dialogo e un linguaggio visivo nato per essere animato su uno schermo.
Il cartone animato d'origine può anche essere un bellissimo cartone animato, ma questo non significa che ne possa nascere un buon libro. Sarebbe come pensare che da un'ottima lasagna possa essere ricavato un buon gelato.
Il risultato è piatto, spesso anche poco chiaro (ho visto libri la cui trama non era comprensibile senza aver visto il cartone animato originale, perché molte cose erano lasciate sottintese).
Ai bimbi piacciono? Certo: tutti noi troviamo piacevole e rassicurante rifugiarci in ciò che ci è già noto e familiare. Ma forse è meglio esporli a materiale migliore, in modo che a diventare familiari siano anche albi e autori di qualità.

  •  Non insegna.
Aspettate, non è vero: un libro insegna sempre qualcosa. Insegna ad apprezzare la nostra lingua, insegna lo humour, insegna che esistono mondi diversi dal nostro, insegna il valore della diversità, insegna a riconoscere e gestire le nostre paure e potrei andare avanti praticamente all'infinito.
Paradossalmente i libri che meno insegnano sono quelli fatti "per insegnare".
Li potete riconoscere subito: hanno esattamente la storia che ti aspetti leggendo il titolo e una morale evidente, spesso scritta senza mezzi termini.
Sono libri in cui il protagonista è un bambino che fa qualcosa che non va (fa ancora la pipì nel pannolino, è geloso della sorellina, non mangia gli spinaci, non si lava i denti), poi succede qualcosa e il bambino impara a fare la cosa giusta. In sostanza, libri che vogliono ricreare una situazione in cui molti bimbi si trovano, e fungere da scorciatoia per genitori che non sanno bene come affrontarla.
Ancora una volta, si tratta di libri che rispondono a logiche di mercato e non artistiche.
Libri del genere non solo non educano alla bellezza letteraria, ma non rendono nemmeno bene il servizio per il quale sono nati, per una serie di motivi:
  1. Il bambino non si identifica. Pensate davvero che un bambino per identificarsi abbia bisogno di vedere una situazione identica a quella che vive? Tutt'altro. Un bambino sa identificarsi perfettamente in un leone, una farfalla, una foglia, ma se vede una casa che è una casa ma non la sua, un bambino che è un bambino ma è diverso da lui, una mamma che è una mamma ma non parla proprio come la sua, allora tenderà a notare più le differenze che le similitudini.
  2. Il bambino sente "puzza di morale". "Ah, ok, adesso la mamma tira fuori quel libro perché vuole che anch'io impari a fare così". Credete davvero che non se ne accorgano?
  3. Il bambino si annoia. È confermato da numerose ricerche condotte da neuroscienziati: l'apprendimento viene attivato in modo molto più efficace attraverso l'emozione. Ciò significa che se un bambino si diverte, si commuove, ha paura o si stupisce impara molto di più e molto meglio. Ecco perché un bel libro insegna sempre di più di un "libro per insegnare".
In fondo le stesse cose possono essere raccontate in mille modi diversi. Il difficile percorso verso il vasino e l'autonomia può diventare il viaggio di un uccellino, e anche un pinguino inventore può aiutare a superare le proprie paure.


Io vado, Matthieu Maudet, Babalibri
Ultima regola: ogni regola ha le sue eccezioni. Non applicate con rigidità i criteri che vi ho dato, e soprattutto non vietate ai bambini un libro che desiderano solo perché non è un libro di qualità.
Semplicemente, non stancatevi mai di mostrare e proporre loro cose belle.
Non arrendetevi mai a popolare di bello il regno della loro fantasia.



In questo post abbiamo nominato questi libri (belli):

                    
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Eccomi

Copywriter e anche un po' account, co-autrice di fumetti, dilettante (ma appassionata) del fai da te, navigatrice compulsiva, divoratrice di libri e di serie TV. Divido la casa con un marito, tre figli e parecchi gatti di polvere.

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