Nuvole in scatola
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Tutti siamo narratori.

Tutti raccontiamo ogni giorno qualche storia, perlomeno a noi stessi, spesso proprio su noi stessi. È questo che ci rende umani. Se leggiamo libri ai bambini è soprattutto per questo. E poi, sì, ci sono l'amore per l'arte e la letteratura, ma prima ancora c'è il bisogno di storie.

Come raccontare le storie ai bambini

Come raccontare le storie ai bambini Ã¨ un libro insolito, prima di tutto per motivi editoriali: una casa editrice di libri per bambini e ragazzi (Il Castoro) che pubblica un manuale su come raccontare storie ai bambini senza libri... è già sufficientemente strano, non trovate?

Ma se le storie sono ciò che ci rende umani, esse sono anche un meraviglioso veicolo di comunicazione con i bambini, che ci pone sul loro stesso livello, a parlare la loro stessa lingua. Gli autori, due educatori, Silke Rose West e Joseph Sarosy, sottolineano soprattutto l'aspetto relazionale delle storie, la loro capacità di creare un legame che spesso ci permette di superare anche momenti difficili.

Come raccontare le storie ai bambini

Silke Rose West e Joseph Sarosy ci offrono i loro trucchi per improvvisare e inventare racconti e ci svelano il meccanismo per cui, ancorandosi alla realtà, si può affrontare alcuni problemi che altrimenti genererebbero frustrazione, semplicemente inserendoli in un contesto immaginario, affidandoli a personaggi ed eventi esterni a noi.

Come raccontare le storie ai bambini ha, a mio parere, il vizio comune a molti manuali di auto-aiuto di dichiarare "metodo" qualcosa che metodo non è, ma nondimeno dà consigli utili e spunti interessanti per inserire le storie in un contesto quotidiano dove di solito non le infiliamo mai.
Non stiamo parlando della routine di lettura, ma della creazione dal nulla (o meglio, da un elemento di realtà) di racconti completamente inediti, che trovano la loro forza non nella creatività del genitore o nella sua capacità artistica ma proprio nella possibilità di creare un legame tra immaginazione e realtà.

Gli autori lo sottolineano spesso, e io ci credo molto: l'aspetto più importante non è saper dare vita a una storia perfetta, ma dedicare un momento esclusivo al bambino e creare qualcosa che il bambino riconosca come sua, vostra.

Accanto a spiegazioni sull'importanza delle storie e a suggerimenti su come inventarle, gli autori inseriscono dei piccoli esercizi utili per "sbloccare" i propri freni inibitori ed esplorare nuove possibilità.
Inoltre – elemento importantissimo – concludono ogni capitolo con l'esempio di una storia da loro inventata, con la descrizione del contesto da cui è nata e delle reazioni ottenute: un elemento che forse più ancora delle spiegazioni teoriche è utile per capire i meccanismi creativi e dare lo spunto per raccontare.

Come raccontare le storie ai bambini

Come accade per molti manuali rivolti a genitori o educatori, la funzione di Come raccontare le storie ai bambini Ã¨ più che altro quella di ispirare, di spronare. Non a caso la sera stessa, di fronte alla mia piccola che non ne voleva sapere di dormire dopo le solite letture, ho sperimentato subito l'idea di una storia tutta nostra, e ammetto che ha funzionato: la piccola M si è calmata e addormentata in poco tempo.

Insomma, tranquilli: Come raccontare le storie ai bambini non prevede di accantonare libri e albi illustrati, ma vi farà scoprire che le storie non sono soltanto lì dentro, ma ovunque attorno a noi, e soprattutto dentro di noi.


La conquista delle piccole autonomie quotidiane è uno degli aspetti più frustranti e allo stesso tempo entusiasmanti dell'essere bambini.

Procede inevitabilmente per tentativi ed errori, ed è uno di quei casi in cui il modo in cui si prende l'errore fa la differenza: solo chi lo accetta come un'occasione per imparare fa dei veri passi avanti. Chi al contrario lo vive male, si arrabbia e si scoraggia, generalmente rinuncia, almeno finché non ha dimenticato la frustrazione ed è pronto a riprovare.

Io so vestirmi da sola

Elena Odriozola racconta il primo di questi due atteggiamenti, quello positivo e determinato, in Io so vestirmi da sola, un libretto che parla ai bambini più piccoli (dai due anni circa) mettendo in scena il percorso di scoperta verso una nuova conquista.

Lupoguido inaugura con questo titolo una serie di libri dedicati proprio a questa fascia d'età, alle routine  e alle scoperte che comporta.

Io so vestirmi da sola

Con un gusto visivo un po' vintage, con colori caldi e spenti, quasi autunnali, e una copertina che richiama le grafiche degli anni Venti (quelli prima di questi Venti che stiamo vivendo, intendo), Io so vestirmi da sola sembra trattare "da adulti" i più piccoli, e in fondo anche in questa scelta riconosciamo una rappresentazione del loro desiderio di autonomia.

Non sembra essere un caso nemmeno il fatto che la protagonista sia sola, a esclusione del cane che osserva i suoi progressi: imparare a vestirsi è una conquista di cui il bambino che legge, così come la bambina rappresentata, vuole prendersi tutto il merito, con spirito caparbio e orgoglioso.

Io so vestirmi da sola in effetti parla direttamente ai bambini, con poche parole semplici e dirette, senza nulla sotto cui scavare, e un ritmo regolare e rassicurante, che si ripete dall'inizio alla fine con un susseguirsi di elementi quasi uguali a loro stessi.

Io so vestirmi da sola

Sulla pagina di sinistra vediamo l'armadio, scuro con gli indumenti bianchi. A destra, la bambina che di volta in volta ne prende uno e prova a indossarlo, chiedendosi come fare e sbagliando: una volta mette le mutande in testa, un'altra il vestito sottosopra.

Aprendo la pagina di destra, però, la scena si allarga e la situazione si risolve: la bambina ha indossato l'indumento correttamente. Via via che le pagine scorrono, l'armadio si svuota e la bambina si veste. Gli indumenti bianchi, che spiccano sul fondo, hanno un ruolo da co-protagonisti nell'albo: il piccolo lettore li vede gradualmente abbandonare l'armadio e trovare il proprio posto addosso alla bambina. Il volto della piccola non rivela grande emozione, di fatto non accade nulla se non questo processo di vestizione: ma è proprio questa semplicità, questa riconoscibilità del quotidiano, che parla ai bambini con il loro linguaggio, permettendo loro di riconoscersi.

Io so vestirmi da sola non è un libro nato per insegnare (per quanto, di fatto, lo faccia, presentando l'ordine dei gesti da seguire per imparare a vestirsi), è più una storia in cui rispecchiarsi, per rivivere quella frustrazione di sbagliare, quel passo falso che poi, se lo si sa superare, sa portare molto avanti nella strada per diventare grandi.


Il bello dei personaggi immaginari è che non hanno regole precostituite a cui attenersi, non necessariamente, perlomeno.

Sappiamo che i vampiri amano il sangue e odiano il sole, ma possiamo benissimo immaginare un vampiro vegetariano, e se è vero che i draghi sputano fuoco, ce ne sarà di sicuro uno che vuole fare il pompiere (citazione per genitori di una certa età). E poi ci sono categorie, come quella dei "mostri", in cui tutto è possibile. In fondo, cosa sappiamo dei mostri?

i mostri non bevono frappe

Perché i mostri non bevono il frappè? ce ne rivela alcune caratteristiche, ma più che raccontarci cosa fanno i mostri, ci spiega quello che non fanno: non vanno dal parrucchiere, non portano gli occhiali, non hanno paura del buio.

L'albo, pubblicato da Terre di mezzo editore, offre una carrellata curiosa e assolutamente casuale di mostri di ogni genere: Marie-Hélène Versini li cala in contesti quotidiani, in situazioni umane in cui non ci aspettiamo di vedere delle creature simili e le illustrazioni Vincent Boudgourd colgono perfettamente la portata umoristica di questi accostamenti.

I mostri sono assurdi e ridicoli, mai spaventosi. La tecnica mista di acquerello e matita li rende caricaturali nelle epsressioni e imprecisi nei contorni, quasi fossero disegnati dalla fantasia stessa dei bambini.

Il resto è un gioco di scoperta in cui il bambino è tacitamente invitato a scoprire il legame tra testo e immagine, che a volte è di causa, a volte di conseguenza, a volte né l'uno né l'altro.

i mostri non bevono frappe

I mostri non vanno da parrucchiere, perciò hanno la testa completamente spettinata (e comunque quel mostro mi somiglia un po', sappiatelo).

I mostri non indossano le scarpe perché hanno un unico enorme piede che non entra in alcuna calzatura.

i mostri non bevono frappe

Ma c'è un perché (nel senso di causa, stavolta) che unisce tutti questi "non", e non posso dirvelo senza spoilerare, quindi mi fermo qui. Vi basti sapere che è un perché rassicurante (non che i mostri, così disegnati, potessero fare paura), e che un po' sovverte una delle regole non scritte della fiction, quella di non dichiararsi tale.

Perché i mostri non bevono il frappè? è però prima di tutto un libro con cui divertirsi e che invita a proseguire il gioco oltre le sue pagine, inventando nuove cose che i mostri non possono fare o disegnando nuovi mostri dalle forme ancora più improbabili. È questo, dicevamo, il bello dei personaggi immaginari: che non hanno limiti, e allora una volta chiuso il libro, si può lasciare ancora aperta la fantasia.


Non è propriamente un genere letterario codificato, ma ci sono molti elementi comuni che uniscono la maggior parte delle "storie del bosco": la sensazione di lentezza della vita di questi animali antropomorfizzati, l'ingenuità di molti di essi, la loro generosità. Sono caratteri che ritroviamo in tanti libri anche moto diversi tra loro, da Winnie Puh alle Storie di animali di Toon Tellegen.

Il giorno in cui la talpa quasi vinse la lotteria

Ritroviamo questa atmosfera anche nel meraviglioso Il giorno in cui la talpa (quasi) vinse la lotteria, di Kurt Bracharz (edito in Italia da Lupoguido): mentre lo leggiamo, ci sembra di entrare in un mondo già familiare, dove possiamo imbatterci, superato un sentiero o guadato un torrente, in uno dei personaggi che già abbiamo conosciuto in altre letture, o in qualche favola ascoltata chissà dove.
Anche nelle illustrazioni di Tatjana Hauptmann ritroviamo l'eco di immagini familiari, con qualche espressione che ricorda ad esempio gli animali di Wolf Erlbruch.

Ma Il giorno in cui la talpa (quasi) vinse la lotteria resta un libro fresco, che sa unire umorismo e delicatezza e lascia entrare il lettore come spettatore incantato in quel mondo profumato di resina e clorofilla.

Il giorno in cui la talpa quasi vinse la lotteria
 
Tutto ha inizio quando la talpa riceve dalla chiocciola una lettera che le annuncia una vincita alla lotteria.
Aggiungo qui una breve nota di merito per la brava traduttrice, Valentina Freschi, che ha ridato dignità alla parola "chiocciola" e all'animale corrispondente, che nei libri per l'infanzia passa quasi sempre per lumaca.

La lettera, dicevamo, annuncia alla talpa la sua vincita, ma a dire il vero il destinatario della lettera non sarebbe talpa, ma "Tappa". Saputo però il contenuto del messaggio, la talpa (insieme all'amico maiale) cerca di convincere la chiocciola di essere proprio "Tappa", con tentativi buffi e maldestri. 
Avidità? No, la talpa si dimostra in realtà molto generosa, e vuole condividere il suo premio con gli animali del bosco, o perlomeno con coloro che ne hanno più bisogno.

Il giorno in cui la talpa quasi vinse la lotteria

Il resto è una storia di coralità, di ingenuità, di inganni, di trame nascoste, di indizi disseminati e di svelamenti, narrata con un umorismo garbato e mai eccessivo. 
Il giorno in cui la talpa (quasi) vinse la lotteria è una storia deliziosa, una fantastica prima lettura che fa ridere, sorridere, sospettare e gioire, fresca come il sottobosco, semplice e viva come un prato scaldato dal sole.


Non so voi, ma io da piccola sognavo la bacchetta magica che trasformava Yu in Creamy (l'indicazione di questo cartone animato potrebbe fornire indicazioni sulla mia età anagrafica, ma voi ignoratele), oppure, qualche anno più tardi, di trovare "quel" libro, con l'Auryn sulla copertina, che mi proiettasse verso Fantasia.

L'oggetto magico, quello in grado di cambiare la vita, è uno degli elementi cardine di molte fiabe, proprio per il suo indiscutibile fascino. L'idea di trovare in qualcosa di esterno da noi un elemento risolutivo, ha una forte attrattiva sui bambini, anche se forse crescendo le cose cambiano. Da ragazzi e da adulti impariamo a riconoscere l'importanza della soddisfazione personale, dell'orgoglio di farcela con le nostre forze e grazie ai nostri talenti, anche se la quantità di persone che gioca ai vari gratta e vinci forse dimostra che l'oggetto magico delle favole non smette mai di sembrarci desiderabile.

Il cappello
 

Il cappello di questo albo è proprio questo. Tomi Ungerer, come faceva spesso nelle sue opere, mette in scena una "fiaba tranquilla", che espone infatti come in una cronaca, senza stupirsi di fronte alle cose più strane.

Edito da Biancoenero edizioni nella nuova collana Doppio passo, nata con l'intento di "far incontrare diverse generazioni di lettori", Il cappello è in effetti una di quelle storie antiche e moderne al tempo stesso. In essa vediamo questo cilindro (un cappello magico, in fondo, che altra forma poteva avere?) volare via dalla testa di un ricco signore per  arrivare fino a un senzatetto, reduce di guerra.

Il cappello

Il cappello mostra subito le sue doti, rendendo ricco e fortunato il suo proprietario, ma non con modalità truffaldine o attraverso soldi "facili" come quelli di una lotteria. Il cappello, al contrario, sembra animato da uno spirito altruista: si lancia in operazioni di salvataggio improvvisate, fa l'eroe.

L'oggetto magico non porta soldi, porta piuttosto la capacità di guadagnarli attraverso gesti gentili e la riconoscenza delle persone aiutate.


Il cappello


Grazie al suo cappello, il senzatetto conosce anche l'amore, e l'albo giunge a un finale circolare, non del tutto inaspettato, ma sicuramente "giusto".

La ricchezza, in questo albo, non è sinonimo di avarizia, ma al contrario: è una condizione che si raggiunge attraverso atti di gentilezza, come se chi fa del bene richiamasse il bene su di sé. Il cappello sembra a questo punto soltanto un tramite, un mezzo per cogliere questa verità. Il resto, lo fa tutto la nostra disposizione d'animo.


Ovipari o mammiferi, carnivori o erbivori, d'acqua o di terra: tra le tante tassonomie animali possibili, non se ne era mai vista, credo, una basata sull'estetica.

Animali bellissimi
 

Eppure, a dispetto del titolo, che sembra denotare una certa leggerezza scientifica, Animali bellissimi di Daniela Pareschi, edito da il Barbagianni, va ben oltre il vezzo e con il suo approccio originale permette di approfondire aspetti fondamentali e a volte trascurati della biologia animale.

Il libro è composto da schede divulgative agili e dal testo breve, affiancate da affascinanti tavole illustrate a pagina intera, in un'originale sinergia tra comunicazione scientifica e arte.

Come accennavo poco sopra, gli animali sono raggruppati perlopiù in base a caratteristiche estetiche o fisiche che uniscono in modo trasversale specie molto diverse tra loro, consentendo così di creare connessioni tutt'altro che gratuite. Troviamo ad esempio gli animali "con i capelli", quelli "con le corna", quelli "piccolissimi", quelli "con i baffi" e così via. In questo modo, vediamo riuniti nella stessa categoria gatti, insetti e crostacei, o ancora ragni, cicogne e giraffe. Cosa li unisce? Molto più di quello che si direbbe a un primo sguardo.

Ogni caratteristica fisica nasce infatti da una necessità di adattamento evolutivo, che ha sviluppato strategie simili anche in animali molto lontani tra loro. Gli aculei del riccio, quelli del pesce cobra e del grillo spinoso nascono ad esempio da una medesima esigenza difensiva; le macchie del pavone, del panda e della coccinella rispondono al bisogno di confondersi nel proprio ambiente.

Animali bellissimi

Animali bellissimi Ã¨ un albo sintetico, con pochi box di testo, che sono però sufficienti per creare connessioni inedite e aprire a riflessioni grazie all'originalità dell'impostazione. Quello che trasmette è soprattutto un profondo fascino per come la natura trovi strade simili in contesti tanto differenti tra loro; un fascino che emerge dirompente dalle magnifiche tavole, dove la caratteristica fisica si fa protagonista e infonde la sua potenza a tutta l'illustrazione: il dalmata che si staglia in uno sfondo optical, le corna del cervo che sembrano prolungarsi nei rami del bosco, la pelliccia del levriero afgano pettinata dal vento fondono tra loro elementi di regni diversi in un'unica emozione.

Animali bellissimi

È la meraviglia degli occhi che si fonde con la meraviglia della mente, mentre scopriamo la bellezza e il mistero della vita.


Questa è la rivincita dei papà pelati, la loro trasformazione in eroi, o perlomeno in co-protagonisti di una storia.

Quando i capelli di papà andarono in vacanza
 

Quando i capelli di papà andarono in vacanza è un racconto dal sapore ironico e avventuroso edito da Terre di Mezzo, che lo stile narrativo, ma soprattutto illustrativo, di Jörg Mühle rende irresistibile.

Poche semplici parole introducono con spiazzante normalità un fatto del tutto irreale:

Un bel giorno i capelli di papà si stancarono di pettine e spazzola. Non avevano più nessuna voglia di starsene sempre lì, fermi sulla testa.
Volevano fare le loro esperienze.
Vedere qualcosa nel mondo, per una volta.

La perdita dei capelli si trasforma insomma in un atto volontario: sono proprio i capelli ad andarsene, con una scelta cosciente di autodeterminazione. Da qui in poi, la storia è tutta nel rocambolesco inseguimento del papà che vuole riavere la sua chioma.

Quando i capelli di papà andarono in vacanza

Nelle diverse illustrazioni, dal sapore vignettistico, li vediamo confondersi con fili d'erba, peli di animale e persino linee di mezzeria di una lunga strada, in un gioco mimetico in cui il semplice tratteggio che li rappresenta si inserisce negli ambienti che attraversa.

Il papà, sempre più trafelato, tenta di raggiungerli e catturarli con ogni mezzo, in situazioni sempre più comiche, fino ad accettare la sua calvizie.

 Quando i capelli di papà andarono in vacanza

Ma un nuovo colpo di scena attende il lettore, e i capelli avranno ancora modo di dimostrare di essere portatori di una volontà propria e originale. 

Anche loro, in fondo, si meritano di essere protagonisti, almeno per questa volta.


SPOILER: i capelli di papà alla fine ritornano. Speriamo che i papà calvi non ci restino male.


È giusto parlare di guerra ai bambini?

È giusto parlare di qualcosa che non trova una vera spiegazione, perlomeno non nel nostro privato sistema di valori?

È giusto parlare di qualcosa che non si può capire?

Ecco, questo è il punto: non dobbiamo avere paura di parlare ai bambini di qualcosa che non capiamo. Non dobbiamo accontentarci delle risposte facili, quelle che sono solo sì o no, perché in un certo senso sono proprio quelle che portano alla guerra.

Affrontare la complessità, il punto di vista divergente, l'idea di non poter avere il controllo di ogni cosa, è una capacità che va allenata in noi adulti e coltivata nei piccoli.

E la complessità della guerra sta anche in una verità che non sempre – non a tutti – risulta immediata: non tutti coloro che fanno la guerra vogliono fare la guerra. 

Il nemico

Dopo questa premessa, trovo che non ci sia momento migliore di questo per rileggere Il nemico. Una storia contro la guerra di Davide Calì e Serge Bloch, ed è giusto che Terre di Mezzo lo abbia riedito proprio ora, a un anno dall'inizio dell'invasione russa, quando i riflettori emotivi, se non quelli mediatici, si sono lentamente logorati e affievoliti.

Il nemico

La guerra, invece, quella c'è ancora, e Il nemico la racconta così, con due trincee che sono due buchi (illustrati) nella pagina.

Il campo di battaglia è un luogo immaginato, immacolato, perché di questa guerra non ci interessa scoprire territori, confini, potenze in gioco. Questa è una guerra che vediamo con gli occhi di un soldato qualunque, un soldato qualsiasi che rappresenta tutti i soldati del mondo.

Il nemico

 

Dalla sua trincea nella pagina, il soldato immagina un nemico che non conosce e non ha mai visto. Il manuale da cui ha imparato la guerra, quel manuale scritto da chi la guerra la decide ma non la fa, dice che si tratta di un mostro terribile e sanguinario, ma nella sua terribile solitudine il soldato inizia a chiedersi se davvero questo nemico sia poi così diverso da lui.

Il nemico

La scrittura, o meglio la sceneggiatura di Calì costruisce due mondi paralleli, evidentemente intercambiabili tra loro, dove si è "nemico" non per qualche caratteristica peculiare, ma per il solo fatto di stare dall'altra parte.

E in questo continuo gioco di specchi, le illustrazioni di Serge Bloch astraggono completamente i due soggetti dal loro contesto, per raccontarli come pensieri, immaginazione, condizionamenti, senso del dovere, paura e solitudine.

Non ci sono un soldato buono e un soldato cattivo, soltanto due persone che si ritrovano in una situazione che non hanno voluto e di cui imparano, pagina dopo pagina, a vedere l'assurdità.

Come avevo raccontato in una rassegna di libri sul tema, un anno fa, io la guerra non la so spiegare, ma Davide Calì e Serge Bloch riescono perlomeno a disegnarla e raccontarla, spogliandola di ogni "ragion di Stato" e mostrandola in tutta la sua nuda assurdità.


Prendi due cani affamati, così affamati da avere le visioni.

E poi prendi un osso, un osso gigantesco, che appare all'improvviso, e poi il giorno dopo scompare.

Alberto Gustavo e l osso

Alberto, Gustavo e l'osso di Marco Viale, pubblicato da Sinnos, racconta la storia di un'indagine (chi avrà preso l'osso?), di una ricerca, ma anche di una sinergia tra gli animali del bosco, che tutti insieme sapranno aiutare i due cani Alberto e Gustavo a ritrovare il loro bottino (per poi condividerlo tutti insieme).

Alberto Gustavo e l osso

È una storia che procede con un ritmo cadenzato, e in cui ognuno saprà trovare elementi di attrazione diversi: chi sarà più colpito dall'indagine tra gli animali, chi dalla successiva azione collettiva per riprendere l'osso, chi dal susseguirsi delle vicende. Io, personalmente, ho trovato il climax del racconto nella scoperta dell'origine dell'osso gigante, ma non vi svelo nulla per non togliervi il gusto di scoprirlo da soli.

Spiccano due protagonisti colorati e simpatici fin dal primo sguardo, un'illustrazione iperbolica che fa sembrare ogni azione un'avventura e una continua svolta narrativa che cambia le carte in tavola, facendo complice chi prima era accusato.

Alberto, Gustavo e l'osso diverte e appassiona in poche pagine che sono una scoperta continua. Un po' come trovare un osso gigante dove meno te lo aspetti.



Come funziona un libro?

Non materialmente, intendo. Non sto parlando di carta, quartini e rilegatura, ma proprio del meccanismo che ci fa trasformare delle parole scritte in una storia, dentro la nostra testa.

Ho letto tempo fa un saggio artistico dalla struttura molto originale: Che cosa vediamo quando leggiamo di Peter Mendelsund, che raccontava a parole ma soprattutto attraverso le illustrazioni cosa accade nella nostra mente quando si formano le immagini. Quando leggiamo un romanzo, una descrizione, forse crediamo di ricostruire dentro di noi l'intero scenario, in forma quasi fotografica, ma non ne "vediamo" in realtà che dei brandelli, un po' come accade nei sogni. Da lettrice, mi ci ero ritrovata molto.

Con i bambini è diverso: finché leggiamo loro degli albi illustrati, l'immagine è data, la fornisce il libro stesso.

Ma quando passiamo al racconto orale o alla narrativa, "vedere" un racconto diventa un lavoro di relazione e immaginazione, tra l'abilità del narratore di "dipingere" la storia a parole e quella dell'ascoltatore di ridipingersela nella mente con l'immaginazione. È un meccanismo la cui origine si perde nella notte dei tempi, da quando il primo uomo ha narrato la prima storia, e forse per questo lo diamo per scontato, ma è, se ci pensiamo, la base di ogni narrazione.

Raccontami una storia


Trovo quindi perfetto che nel celebrare il suo decimo anno di attività, la casa editrice minibombo abbia scelto di pubblicare un libro come Raccontami una storia, che proprio di questo meccanismo di narrazione e immaginazione fa la sua chiave creativa.

Di minibombo stupisce sempre la capacità di trovare meccanismi nuovi che scardinano il linguaggio e le storie, rompendo la quarta parete in modo ogni volta inedito eppure mantenendo uno stile così uniforme e riconoscibile. Raccontami una storia di Elisabetta Pica e Silvia Borando non fa eccezione: riesce allo stesso tempo ad essere un riconoscibilissimo albo di minibombo e a cambiare, di nuovo, le regole della lettura.

Raccontami una storia

Tutto ha inizio con un nipote che chiede al nonno di raccontargli una storia.

La voce del nonno introduce i suoi elementi, ma sono tutti verdi: un ranocchio, un prato, un cespo di lattuga.

Quello che vediamo sulla pagina è la figura che si è composta nella mente del bambino: una pagina verde nella quale spiccano pochi tratti neri e il bambino si lamenta del fatto che "non si capisce niente".

Raccontami una storia

Il libro prosegue così (fino al finale che, naturalmente, chiuderà il cerchio con una buona dose di ironia), con una leonessa e una palla da tennis tra le dune del deserto, per uno scenario tutto giallo, o con la pagina grigia che dipinge un elefante e un topo nella nebbia.

Il lettore (o meglio, l'ascoltatore) reale si rispecchia nel lettore/ascoltatore raccontato dal libro, e con lui ricostruisce la scena e ne individua il colore, e così facendo riflette su come "funzioni" il meccanismo della narrazione, scoprendone un lato su cui probabilmente non aveva mai riflettuto.

Ma a livello meno astratto, troviamo anche un piccolo gioco in ogni pagina: la ricerca, nello spazio pieno di un solo colore, di quegli elementi che il racconto identifica e che i tratti neri accennano appena: gli occhi della leonessa, le venature della foglia di lattuga, il profilo dell'orecchio dell'elefante.

Raccontami una storia porta così una stratificazione di livelli che consentono una lettura leggera, giocosa e divertente, ma anche una riflessione su cosa significhi, per l'appunto, raccontare una storia.

È così che da dieci anni minibombo si racconta a noi: mettendo in moto la nostra capacità di capire e di immaginare, ma sempre giocando.


 

Ha la forza di una canna di bambù e la delicatezza di un fiore di ciliegio, la fiaba di cui vi racconto oggi.

La ragazza bambu

La ragazza bambù, scritta dall'olandese Edward Van de Vendel e illustrata con grande sensibilità da Mattias De Leeuw, edita in Italia da Sinnos con la bella traduzione di Laura Pignatti, è un libro dalla struttura molto particolare. Il rapporto tra testo è immagini è quello di un albo illustrato, con le immagini protagoniste dello spazio-pagina, ma la mole dell'opera è decisamente quella di un romanzo, con una quantità di testo complessivo abbastanza corposa e una foliazione di 240 pagine.

Nonostante la lunghezza, lo consiglierei tranquillamente per una "seconda" lettura, per bambini che iniziano a leggere con una certa fluidità ma non hanno ancora affrontato testi lunghi: il ritmo di questo romanzo invita alla lentezza, alla contemplazione, e ben si adatta ad essere riposto e ripreso in più giorni, e assaporato con calma.

La ragazza bambu

La trama riprende una narrazione tradizionale giapponese, già riproposta in molte versioni e varianti: quella di una coppia di anziani che trovano una minuscola bambina in una pianta di bambù e la crescono come la figlia che non hanno mai avuto.

La piccola col tempo diventa una fanciulla di una bellezza senza pari, contesa tra pretendenti che le offrono ogni cosa, e a cui lei affida prove impossibili, ben sapendo che non può concedersi a nessuno, perché lei appartiene a un altro mondo. Finché arriverà un giovane, meno borioso degli altri, più semplice e sincero, che la farà innamorare, mettendola di fronte a un grande dilemma: rispettare il proprio destino o seguire il proprio cuore?

A far da cornice a questa favola, una presenza enigmatica, a cui il narratore si rivolge dando del tu. Una creatura lunare che segue da lontano, con il cannocchiale, le vicende della ragazza-bambù:

Seduta sul tuo seggiolino sulla Luna
tu guardavi quello che succedeva a Oi.

Il suo ruolo non sarà chiaro se non nell'inaspettato, e piacevole, finale, ma gli intermezzi con cui questo personaggio spezza la narrazione danno respiro alla storia, rispecchiando spesso i sentimenti del lettore stesso, e contribuiscono a mantenere l'atmosfera onirica e msteriosa di questo racconto.

La ragazza bambu

Le delicate illustrazioni ad acquerello, che richiamano lo stile giapponese, rivisitato con tratti più moderni, infondono alla storia bellezza e armonia, pennellando il racconto con i colori rilassanti della natura, in cui dominano il blu del cielo, il verde dei prati, il rosa dei fiori di ciliegio. Anche la prosa è posata, calma, serena anche nei momenti di maggiore tensione.

La ragazza bambù è una fiaba che proietta in altri mondi, ma soprattutto in altri tempi, tempi tranquilli e rilassanti in cui godersi una storia dalle sfumature acquerello.


"Mamma, immagina se adesso tiro un calcio e il pallone finisce sulla luna!"

"Papà, hai visto? Ho bevuto tanto che tra poco scoppio come una bomba d'acqua"

Tra tutte le figure retoriche, l'iperbole è forse quella che i bambini padroneggiano meglio, quella che più si adatta alla forma della loro immaginazione, la più diretta e immediata.

Le cacche del coniglio - Le puzze dell'elefante

Credo sia per questo, e non solo per il tema scatologico che è sempre particolarmente gradito dai piccoli, che ha avuto un grande successo la serie di Francesco Pittau e Bernadette Gervais che comprende Le cacche del coniglio e Le puzze dell'elefante, ripubblicati oggi da Il Castoro in una nuova edizione (che non utilizza più il Comic Sans come la precedente: grazie, grazie, grazie Il Castoro!), sempre con la traduzione di Silvia Pareti.

La semplicità e il candore di questi albi sono quasi disarmanti: le storie procedono con una medesima struttura, capace di cogliere con precisione le attenzioni dei bambini grazie alla cura del ritmo narrativo, dello stile illustrativo e, naturalmente, dell'argomento principale, un vero evergreen.

Le cacche del coniglio

L'arco narrativo dei due albi, dicevo, è praticamente sovrapponibile: prima viene presentato l'animale con la sua caratteristica iperbolica (il coniglio che fa tantissime cacche, l'elefante che fa tantissime puzze), poi vediamo gli amici del protagonista che, stufi delle conseguenze di queste azioni, lo isolano, e infine si riuscirà a trovare non soltanto una soluzione, ma anche un lato positivo all'eccesso di cacche e di puzze, in un clima sempre allegro e giocoso.

Le cacche del coniglio

Due albi sulla resilienza? Sull'accettazione delle peculiarità delle persone? Forse, ma prima di tutto due albi esilaranti, in cui il bambino viene catturato dalla serenità e dal sorriso spensierato di questi protagonisti che producono montagne di cacche e sollevano le lenzuola con la forza delle loro puzze.

Le puzze dell'elefante

In conclusione: preparatevi a una lettura condita e interrotta da matte risate, mentre aspettiamo che Il Castoro ripubblichi anche La pipì della zebra e Il moccio dell'ippopotamo, perché di schifezze con cui ridere, qui, non ce n'è mai abbastanza.


 

C'è un grande, insondabile mistero che nessun genitore è ancora riuscito a sbrogliare.

Perché un bambino, quando ha sonno, si agita, urla, fa il broncio, si irrita per qualsiasi cosa, quando potrebbe semplicemente dormire? Se lo chiedono milioni di adulti che vorrebbero essere al suo posto e cogliere l'occasione sempre più rara di riposare senza altri pensieri e sensi di colpa.

Il riposino no

E se lo devono essere chiesto anche Chris Grabenstein e Leo Espinosa, rispettivamente autore e illustratore di Il riposino no!, un frizzante albo da poco pubblicato da Il castoro.

Protagonista è Arianna, una bambina che, come tanti altri di mia conoscenza, non vuole proprio fare il riposino.

Il riposino no

Le sue urla contrariate di avvertono in tutta la città; perfino gli operai al lavoro col martello pneumatico si stupiscono:

"Non ho mai sentito niente di più rumoroso!"

Il riposino no

Ma la svolta arriva quando un anziano seduto sulla panchina del parco chiede: 

"Se lei proprio non lo vuole, posso farlo io il suo riposino?"

E uno dopo l'altro, tutti gli abitanti della città si accaparrano tutti i riposini non fatti da Arianna. E da qui la storia si fa iperbolica, paradossale, giocosa, anche nel rintracciare nelle illustrazioni la "vignetta" più divertente,
 
Il riposino no

La domanda dell'anziano innesta  un piccolo corto circuito di senso, che è poi l'idea creativa che regge tutto il libro: il fatto che il riposino possa essere un oggetto di scambio, che se uno non lo usa, se lo possa prendere l'altro. Un principio comico che segna uno scarto evidente tra il target del libro e la protagonista che vi è rappresentata.
Arianna si muove in passeggino, non sa parlare (se non per dire "no", naturalmente), potremmo qui di assegnarle un'età tra un anno e un anno e mezzo, ed è evidente che l'albo non può essere compreso da un bimbo così piccolo: non ne afferra l'idea creativa, non ne coglie le battute scherzose, forse non ne coglie ancora nemmeno la trama. Immaginando un piccolo lettore che sappia godere delle sfumature ironiche e paradossali di questo testo, dobbiamo fare un salto fino almeno ai quattro anni, un'età in cui il riposino, il più delle volte, non si fa più. Il che non permette nemmeno un'identificazione "ispirazionale", perché i bambini, si sa, tendono a cercare modelli nei più grandi.

Un difetto dell'albo? Tutt'altro. Io preferisco vedere in questo scarto una dichiarazione di intenti: questo non è un "libro per". Non verrà letto per convincere i bambini dell'importanza del riposino, non verrà letto per convincere a dormire.

Verrà letto per il solo piacere di leggere, di condividere una momento divertente, al limite potrà scappare un "ti ricordi quando anche tu non volevi mai fare il riposino?". Perché la nanna non puoi "farla fare", sarebbe come imporre di non essere in ansia o di sentirsi felici. Ma le risate sì, quelle si possono regalare, un po' come i riposini dentro questo libro.


PS: fate caso ai risguardi. "Urlati", all'inizio, "sussurrati" alla fine. Un bel dettaglio per accompagnare la storia ad aprirsi e a chiudersi.


Quando nasce l'amore per la lettura?

Forse può nascere a qualsiasi età, però di una cosa sono certa: quando nasce presto, molto presto, quell'amore è legato strettamente al rapporto con mamma e papà. La nascita di questo amore è il tema dell'albo di cui vi racconto oggi.

Tom e Pippo leggono una storia

Con Tom e Pippo leggono una storia, Camelozampa porta di nuovo ai piccolissimi i protagonisti che già avevamo amato in Tom e Pippo combinano un guaio (qui il mio post).
Anche a livello editoriale, questa serie è fatta apposta per essere maneggiata da piccole mani: le pagine grandi e spesse (ma non cartonate: il bambino che ha confidenza con i libri impara presto a farne a meno), gli angoli arrotondati.

La Oxenbury sa dipingere in modo straordinario il mondo dei bambini in un modo che i bambini sanno capire: con figure semplici su sfondi bianchi o minimali, poche parole che sono le stesse che un piccolo sente dentro di sé. 

Tom e Pippo leggono una storia

In questa semplicità riesce ad essere particolarmente profonda nel cogliere le sfumature del sentire bambino, e allo stesso tempo molto moderna. Nel mondo di Tom e Pippo c'è solo un papà. 
Cosa significa? Non ha importanza.
Forse la mamma non c'è, forse è semplicemente da un'altra parte nel momento in cui si svolge la storia, ma in questo contesto appare del tutto naturale che sia il papà a prendersi cura del figlio (cosa che nel 1988, quando il libro è stato pubblicato, forse tanto scontata non era).

Un altro dettaglio solo apparentemente casuale: quel papà non è lì per il figlio. Solo nelle cattive opere di fiction i genitori sono sempre a disposizione. Lo vediamo leggere il giornale, con le gambe distese che comunicano relax. Per farsi leggere una storia, Tom lo disturba, lo distoglie dal suo momento. 
Il papà lo fa volentieri, certo, ma è un momento che si ritaglia tra altre cose da fare:
Al papà piace leggere il giornale, ma non gli dispiace leggere i miei libri con me.

Tom e Pippo leggono una storia

E poi c'è Pippo, il pupazzo di Tom, a cui è Tom a leggere, e in questo rapporto si rispecchia quello tra il bambino e il padre, in una perfetta rappresentazione simbolica di tutti i sentimenti in gioco, tra il piacere e la fatica di leggere.

C'è un'ironia sottile nel finale, in Tom che dopo un po' si stufa di leggere per Pippo, una velata battuta che dà profondità all'albo e lo rende godibile anche da bambini più grandi di quelli (di 1-2 anni) a cui di norma si indirizzerebbe.
Il papà legge a Tom, Tom legge a Pippo: nella fatica di leggere, si trasmettono amore e relazione.
È nato un nuovo, piccolo lettore.


A volte penso che quando cerchiamo storie di sopravvissuti all'Olocausto lo facciamo non tanto per vedere quanto l'umanità abbia saputo scendere negli abissi della non-umanità, ma al contrario, per vedere come anche nella disumanità più profonda si possa trovare un lume di speranza.

Sì, perché le storie di sopravvissuti sono quasi sempre storie di solidarietà, di resistenza collettiva, di un fuoco mantenuto vivo da una scintilla, soffiandoci sopra tutti insieme.

La bibliotecaria di Auchwitz

La bibliotecaria di Auschwitz, graphic novel sceneggiato da Salva Rubio e illustrato da Loreto Aroca, edito da Il castoro con la traduzione di Francesco Ferrucci porta esattamente questo: una luce che rischiara le tenebre più profonde dell'Olocausto, una luce tenuta accesa non da un singolo, ma da un gruppo di persone temerariamente attaccate alla vita.

La bibliotecaria di Auschwitz Ã¨ tratto dall'omonimo romanzo di Antonio Iturbe, a sua volta ispirato alla storia vera di Dita Kraus, un'ebrea che da Praga fu deportata ad Auschwitz in quello che fu un caso unico nel panorama dei campi di sterminio: il cosiddetto "Campo per famiglie".
Qui i detenuti erano trattati in modo apparentemente più umano: le famiglie non venivano separate, non si rasavano i capelli e vi era qualche piccolo privilegio; il tutto allo scopo di creare una realtà di facciata da mostrare al mondo, ad esempio in occasione della visita del Comitato internazionale della Croce Rossa. Piccole concessioni, queste, che poco toglievano al dramma vissuto dai detenuti, che dovevano sopportare torture fisiche e psicologiche e, consci della loro condizione privilegiata, sapevano che a essa sarebbe seguito un destino ben peggiore non appena quel loro ruolo di facciata non fosse più servito. 

La bibliotecaria di Auchwitz

È qui che si inserisce la storia di Dita, una ragazza che custodisce nel campo una biblioteca segreta.
I libri diventano simboli di un animo che non si lascia abbattere, di un'umanità che lotta per restare viva anche di fronte all'orrore. La sua missione, che Dita porta avanti temerariamente, con il pericolo di essere scoperta e condannata a morte, aiuta i deportati del blocco a restare umani.

La storia di Dita si intreccia con quella di Fredy Hirsch, leader carismatico che la ispira e la motiva, e che nasconde un pericoloso segreto, e con quella di personaggi storici come lo spietato dottor Mengele.

Leggendo questo graphic novel si ha l'impressione di percorrere due trame: quella delle vicende di Dita e del suo gruppo e quelle della Storia che le scorre attorno.
Passando dalla Praga delle prime pagine al campo di sterminio, i colori si fanno cupi, le inquadrature più strette e opprimenti, e gli sguardi disegnati ci lasciano penetrare il terrore, la speranza, la precarietà, il lutto, la disperazione, le emozioni forti e terribili che hanno segnato la vita di questa ragazza, oggi 93enne, che ha attraversato l'orrore e l'ha saputo vincere, per poi darcene testimonianza.

La bibliotecaria di Auchwitz

Le ultime pagine del volume sono dedicate a un dossier storico.
Senza nulla togliere alla fiction, credo che su questo tema sapere che si sta leggendo una storia vera dia all'opera un valore più profondo, e il desiderio di approfondire, capire fino in fondo ogni passaggio uscendo dal punto di vista limitato della protagonista per guardare il quadro dall'esterno diventi una necessità improrogabile.

A tanti anni di distanza da quell'orrore non ci resta che questo: delle storie da raccontare per non dimenticare, e la consapevolezza che le storie possono salvarci la vita.

PS: Per chi, come me, leggendo questo graphic novel, senta il bisogno di conoscere ancora meglio la storia di Dita, c'è anche la sua autobiografia, oppure il romanzo del marito, che (come il graphic novel racconta) Dita ha conosciuto proprio nel Campo per famiglie di Auschwitz.


Il titolo richiama atmosfere notturne, forse un po' noir, sicuramente arricchite da qualche elemento misterioso. E in effetti è così, anche se in un certo senso non lo è.

Mezzanotte e cinque

Mezzanotte e cinque, infatti, non è un orario, ma il nome del protagonista di questo romanzo di Malika Ferdjoukh, edito da Camelozampa con le illustrazioni di Eleonora Antonini.  È un ragazzino di dieci anni, un vagabondo che passa le sue giornate tra le strade di Praga con la sorella Bretella e il suo migliore amico Emil, e il suo curioso soprannome deriva da uno strano tatuaggio che sembra un orologio le cui lancette indicano proprio quell'ora. 

Ma non è questa la sola Praga che ci racconta il libro. Le pagine ci trasportano con grande efficacia in una città dell'800 che sembra lo scenario perfetto per una favola (e chi ha visitato Praga sa che è davvero così) e in una realtà sociale fatta di grandi contrasti, dove i nobili quisquiliano di cose futili e le persone umili soffrono la fame.

Mezzanotte e cinque

I dialoghi e le descrizioni della Praga nobiliare, grazie anche alla deliziosa traduzione di Chiara Carminati, mantengono un certo manierismo che li rende al tempo stesso aristocratici e ironici. Ritroviamo il vezzo di alcuni termini desueti come "martingala", ma anche commenti arguti, che dietro un tono di voce aristocratico celano una sfumatura irriverente:

La principessa Daniella svenne seduta stante: infatti, benché fosse di origine spagnola, osservava a meraviglia le usanze della corte di Boemia.

Più ruspante è l'altro lato della medaglia, che pullila di annotazioni divertenti più dirette, come quelle sullo stato di pulizia dei bambini, così ricoperti di sporcizia da non lasciar intuire né il colore della pelle né quello dei capelli. La banda di Mezzanotte e cinque sembrerebbe uscire da un'opera di Dickens, se non fosse circondata da un'aura di allegria che emerge nonostante le loro preoccupazioni quotidiane per il sostentamento.

Mezzanotte e cinque


Ah, sì, e poi c'è la trama, che nasce dalla scomparsa di una preziosa collana della principessa, per poi continuare con il suo avventuroso ritrovamento. Mezzanotte e cinque è un romanzo scorrevole e non troppo lungo (e, dettaglio non trascurabile, stampato in font ad alta leggibilità), ma non banale, in cui ogni piccolo trascurabile dettaglio trova alla fine un suo senso; è una storia "di Natale" in cui il bene vince, ma non nel modo più prevedibile, e in cui il valore di una collana è meno importante di quello della verità, della libertà e dei sentimenti autentici.

Tra ironia e siparietti leggeri, Mezzanotte e cinque si noda in un intreccio di misteri, scoperte e sorprese che tiene fede alle atmosfere suggerite da un titolo che in realtà non voleva dire questo, ma lo dice ugualmente benissimo.


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Eccomi

Copywriter e anche un po' account, co-autrice di fumetti, dilettante (ma appassionata) del fai da te, navigatrice compulsiva, divoratrice di libri e di serie TV. Divido la casa con un marito, tre figli e parecchi gatti di polvere.

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