Nuvole in scatola
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La domanda nasce inevitabile in chiunque ami una qualsiasi forma d'arte e stia crescendo dei figli: si può educare alla bellezza?
Può l'esposizione a bei libri, con bei testi, belle immagini e una grafica curata, far nascere in un bambino uno spirito critico che lo aiuti a sviluppare il gusto per la buona letteratura (e magari anche per la buona scrittura)?
E come è fatto un albo illustrato "bello"?



Mi sono posta queste domande molte volte. E per cercare di dar loro una risposta ho studiato, cercato, testato, curiosato, letto, e ho fatto tesoro delle indicazioni e dei suggerimenti di chi ne sapeva più di me, come una fantastica insegnante del corso per volontari Nati per Leggere e un'altrettanto fantastica bibliotecaria in un ciclo di incontri per lettori e genitori.

Ed è così che ho stilato una lista, non esaustiva e rigorosamente poco rigida, di caratteristiche che un bel libro dovrebbe avere o non avere, e che dovrebbero orientare la scelta su uno scaffale di libreria.

Belli fuori

Cominciamo dall'estetica, dalle cose che un libro ci comunica ancora prima di aprirlo e leggerne il contenuto. Come riconoscere un albo di qualità?

  • Non ha strass e glitter.
Pensateci: è come una donna con troppo trucco. Il dubbio che ci sia qualcosa da nascondere ci viene, no? (disse Elisabetta aggiungendo ancora un po' di correttore sulle occhiaie).
Le logiche di marketing spingono molte case editrici a imbellettare le copertine in modo che i bambini ne vengano attratti. Ma se ad attrarre sono più i brillantini del contenuto del libro, se la prima cosa che vedete sullo scaffale sono gli "effetti speciali" e non il titolo o l'illustrazione di copertina, tenetevi alla larga: molto probabilmente la casa editrice pensava che il contenuto da solo non bastasse, o ha selezionato il libro per un pubblico che i libri non li ama.

  • Non ha le ruote.

Stiamo parlando di un libro, giusto? E un libro ha pagine, copertina, risguardi, a volte alette da sollevare, ma di certo non ha ruote.
E non solo per il discorso fatto qui sopra sulle logiche di marketing e sui libri che "si travestono" per mascherare una scarsa qualità di contenuti, ma anche perché per educare un bambino ai libri, è necessario che abbiano forma di libri.
È vero, un bimbo sarà sicuramente attratto da un libro con le ruote, ma lo vedrà sempre per prima cosa come un giocattolo. Si concentrerà sulla sua funzione e non sull'oggetto-libro, con le sue pagine, la sua storia, il suo testo e le sue illustrazioni. Imparerà a divertirsi con il libro per quello che ci può fare, e non per il suo contenuto.

Quindi, se un libro ha le ruote, è una macchinina e non un libro.
Se un libro si gonfia, è un gioco da bagnetto e non un libro.
Se un libro ha zampe e orecchie, è un orsetto e non un libro.
Meglio comprare una bella macchinina, un bel gioco da bagnetto, un bell'orsetto.
Allora non esistono libri gioco? Certo che sì: esistono eccome. Da Un libro di Tullet a Il libro cane o Questo libro fa di tutto di minibombo, o Aiuto, arriva il lupo! di Ramadier e Bourgeau, di libri gioco ce ne sono tanti, vari, coinvolgenti e di qualità. Ma sono libri, appunto. E insegnano a giocare con l'immaginazione, e non con le ruote.

  • Non fa suoni.
Come sopra: un libro non parla e non suona, si fa leggere. Non ha pulsanti, ha la vostra voce.
Perché affidarsi a suoni metallici malriusciti e irreali quando potete essere voi stessi lo strumento?
E se pensate che in questo modo non si possano trasmettere con efficacia i versi, i rumori o la musica, provate a leggere L'uccellino fa..., a raccontare A caccia dell'Orso o a suonare con la vostra voce interpretando Squeak, rumble, whomp! Whomp! Whomp!.
Ogni volta in cui lo farete, non starete solo leggendo, ma starete insegnando a vostro figlio il potere dell'interpretazione, quello dell'immaginazione, quello della magia di un testo. E anche quello dell'amore (perché diciamocelo: voi siete molto meglio di un pulsante elettronico!).


Belli dentro

E adesso apriamolo, questo libro. Come si riconosce un contenuto ben fatto?

  • È scritto "bene".
Già, ma cosa significa scritto bene? 
Significa che utilizza grammatica, sintassi e punteggiatura in modo corretto, e fin qui ci siamo.
Ma significa anche che il testo ha un suo ritmo, una sua musicalità (e se il ritmo si interrompe, c'è un motivo). Che usa un lessico adatto ai bambini ma non per questo banale, senza paura di introdurre qua e là qualche parola "difficile", se il contesto aiuta a comprenderla. Che ha una struttura sintattica chiara e non ambigua. Che, se è in rima, rispetta una metrica e non si limita alle rime "facili", come i verbi all'infinito. Che ha una struttura narrativa comprensibile, senza salti che non siano colmabili dal contesto. 

Un pomeriggio super. Jessixa Bagley, Terre di mezzo Editore
  • È illustrato "bene".
Già, ma cosa significa illustrato bene?
Ok, questa è più difficile (sarà che in Italia si bada più alla cultura della parola che a quella dell'immagine).
Una buona illustrazione ha una complessità coerente con l'età di riferimento del libro (non usa ad esempio sfondi dettagliati e contorni sfumati per un neonato), è espressiva, trasmette lo stato d'animo dei personaggi e infonde sensazioni in chi legge, e soprattutto non è banale o fatta in serie: se trovate un orsetto che vi ricorda le decorazioni delle bomboniere o le copertine dei vostri quaderni di scuola, be', con tutta probabilità quella non è una buona illustrazione.
Illustrare bene non significa essere realistici, ma trasmettere qualcosa: meglio un segno all'apparenza maldestro e impreciso ma la cui imprecisione è espressiva, piuttosto che una perfetta imitazione della realtà, che resta sempre e comunque un'imitazione e basta.

  • Ha un rapporto non scontato tra testo e immagini.
Un albo illustrato non è un libro con le illustrazioni.
Parole e immagini dovrebbero lavorare insieme per raccontare una storia, colmando le une le mancanze delle altre (e possibilmente lasciando ancora qualche vuoto da colmare, perché i bei libri lasciano che una parte della storia se la racconti da solo il lettore).
Se le immagini servono solo a far visualizzare la storia a un lettore con poca immaginazione, o se le parole si limitano a descrivere ciò che già vediamo, il libro non sta facendo un buon lavoro.
È naturale che gli albi per i bambini più piccoli siano più esaustivi e meno aperti alle inferenze, ma diffidate sempre da quelli in cui il rapporto immagine-parola è un semplice 1:1.
(Una riflessione più approfondita sul rapporto tra testo e immagini in un albo l'avevo fatta in questo post.)

Questo non è il mio cappello, Jon Klassen, Zoolibri
  • Non usa stereotipi.
Se aprendo un libro trovate la mamma casalinga che cucina la torta, il papà sempre assente perché va a lavorare e magari figlio maschio che gioca con le macchinine mentre la femminuccia mette a nanna le bambole, richiudetelo e rimettetelo sullo scaffale.
Se presi in piccole dosi gli stereotipi aiutano la comprensione e sono necessari alla comunicazione e alla sintesi (quando vediamo un uomo con uno stetoscopio al collo comprendiamo subito che si tratta di un dottore), ma quando diventano l'asse portante di una storia, probabilmente qualcosa non va.
Una storia basata sugli stereotipi denota una scarsa immaginazione dell'autore e non rende nemmeno un buon servizio al lettore (e tantomeno alla sua coscienza sociale). Per essere credibile, un personaggio non può appiattirsi su un'immagine preconfezionata.
E anche se sembra paradossale, è molto più difficile identificarsi in un personaggio piatto e semplice piuttosto che in una "persona" con le sue sfaccettture, anche se diverse dalle nostre.
(Sui libri anti-stereotipi di genere trovate una mia riflessione qui).

  • Non riduce.
I tre moschettieri per un bambino di quattro anni, il giardino segreto per una bambina di cinque
(non parliamo poi del Piccolo Principe letto a bambini di età prescolare o poco più): a chi servono davvero? Ai bambini o ai genitori che hanno fretta di farli crescere? O forse solamente ai bilanci delle case editrici che li pubblicano?
È comprensibile: chiunque abbia molto amato un libro da bambino non vede l'ora di farlo conoscere ai figli. Ma che fretta c'è?
Se vi siete innamorati di una storia o di un testo, li avete amati per la loro ricchezza e in tutta la loro potenza espressiva, non certo per il mero elenco delle azioni compiute dai personaggi.
Che senso ha allora cercare la riduzione di un testo adattato a un'età diversa da quella alla quale era originariamente rivolto?
Che senso ha appiattire il linguaggio, eliminare sfaccettature, edulcorare scene dal forte impatto emotivo? Nella grande maggioranza dei casi, chi pubblica una riduzione lo fa unicamente per logiche di mercato e non certo per ragioni letterarie.
Impariamo l'arte della pazienza (non cerchiamo sempre di insegnarla ai bambini?) e aspettiamo il momento giusto per proporre ai nostri figli i libri nella loro versione completa e originale. Ci sono centinaia di bei libri perfetti per la loro età, ora, da non lasciarsi sfuggire.

  • Non è "tratto da"
Gli scaffali delle librerie (non tutte, per  fortuna) sono zeppi di libri tratti da cartoni, film o addirittura giochi per bambini.
Nella maggior parte dei casi, si tratta di riduzioni delle stesse storie già viste in tv o al cinema; storie quindi che hanno un testo pensato per essere interpretato e recitato in un dialogo e un linguaggio visivo nato per essere animato su uno schermo.
Il cartone animato d'origine può anche essere un bellissimo cartone animato, ma questo non significa che ne possa nascere un buon libro. Sarebbe come pensare che da un'ottima lasagna possa essere ricavato un buon gelato.
Il risultato è piatto, spesso anche poco chiaro (ho visto libri la cui trama non era comprensibile senza aver visto il cartone animato originale, perché molte cose erano lasciate sottintese).
Ai bimbi piacciono? Certo: tutti noi troviamo piacevole e rassicurante rifugiarci in ciò che ci è già noto e familiare. Ma forse è meglio esporli a materiale migliore, in modo che a diventare familiari siano anche albi e autori di qualità.

  •  Non insegna.
Aspettate, non è vero: un libro insegna sempre qualcosa. Insegna ad apprezzare la nostra lingua, insegna lo humour, insegna che esistono mondi diversi dal nostro, insegna il valore della diversità, insegna a riconoscere e gestire le nostre paure e potrei andare avanti praticamente all'infinito.
Paradossalmente i libri che meno insegnano sono quelli fatti "per insegnare".
Li potete riconoscere subito: hanno esattamente la storia che ti aspetti leggendo il titolo e una morale evidente, spesso scritta senza mezzi termini.
Sono libri in cui il protagonista è un bambino che fa qualcosa che non va (fa ancora la pipì nel pannolino, è geloso della sorellina, non mangia gli spinaci, non si lava i denti), poi succede qualcosa e il bambino impara a fare la cosa giusta. In sostanza, libri che vogliono ricreare una situazione in cui molti bimbi si trovano, e fungere da scorciatoia per genitori che non sanno bene come affrontarla.
Ancora una volta, si tratta di libri che rispondono a logiche di mercato e non artistiche.
Libri del genere non solo non educano alla bellezza letteraria, ma non rendono nemmeno bene il servizio per il quale sono nati, per una serie di motivi:
  1. Il bambino non si identifica. Pensate davvero che un bambino per identificarsi abbia bisogno di vedere una situazione identica a quella che vive? Tutt'altro. Un bambino sa identificarsi perfettamente in un leone, una farfalla, una foglia, ma se vede una casa che è una casa ma non la sua, un bambino che è un bambino ma è diverso da lui, una mamma che è una mamma ma non parla proprio come la sua, allora tenderà a notare più le differenze che le similitudini.
  2. Il bambino sente "puzza di morale". "Ah, ok, adesso la mamma tira fuori quel libro perché vuole che anch'io impari a fare così". Credete davvero che non se ne accorgano?
  3. Il bambino si annoia. È confermato da numerose ricerche condotte da neuroscienziati: l'apprendimento viene attivato in modo molto più efficace attraverso l'emozione. Ciò significa che se un bambino si diverte, si commuove, ha paura o si stupisce impara molto di più e molto meglio. Ecco perché un bel libro insegna sempre di più di un "libro per insegnare".
In fondo le stesse cose possono essere raccontate in mille modi diversi. Il difficile percorso verso il vasino e l'autonomia può diventare il viaggio di un uccellino, e anche un pinguino inventore può aiutare a superare le proprie paure.


Io vado, Matthieu Maudet, Babalibri
Ultima regola: ogni regola ha le sue eccezioni. Non applicate con rigidità i criteri che vi ho dato, e soprattutto non vietate ai bambini un libro che desiderano solo perché non è un libro di qualità.
Semplicemente, non stancatevi mai di mostrare e proporre loro cose belle.
Non arrendetevi mai a popolare di bello il regno della loro fantasia.



In questo post abbiamo nominato questi libri (belli):

                    
Che senso ha nascondersi se nessuno ti cerca?
Cos'è che ci rende diversi dagli altri, e cosa uguali?
Cosa significa "ieri"? E "domani"?


Non sono animali come tutti gli altri, i protagonisti di Storie di animali per quattro stagioni. Pur nelle loro caratteristiche, tipiche della specie di ognuno, sono personaggi umani, molto umani, e non solo perché hanno case con porte e scale e servizi da tè e forni per cuocere torte.
Di antropomorfo, questi animali, hanno soprattutto i pensieri.

L'olandese Tool Tellegen li tratteggia con personalità, fragilità, introspezioni e ossessioni più umane che mai.
Storie di animali per quattro stagioni, edito da Sinnos, è una raccolta di storie brevi (due-quattro pagine l'una), ognuna delle quali vede come protagonista un diverso animale del bosco (un "bosco" in senso lato, perché vi troviamo anche dromedari, leoni e rinoceronti: è più un luogo delle favole che un habitat vero e proprio).
Ogni brano rappresenta uno spaccato di vita o di riflessioni del protagonista, a volte anche privo di una vera e propria trama narrativa classica (i finali sono quasi tutti sospesi). Quello che spicca, in tutti, è l'originalità del pensiero, l'introspezione, la descrizione di ognuno.


L'oritteropo ama nascondersi, ma prima prova ad urlare per chiedere se qualcuno lo sta cercando, perché non ha senso non farsi trovare se nessuno ti cerca.
Il millepiedi conta ossessivamente le proprie zampe, perché non è sicuro che dovrebbe chiamarsi proprio così, e il suo senso dell'identità va in crisi.
Il dromedario incontra il cammello ed entrambi, guardandosi le rispettive gobbe, riflettono su uguaglianza e diversità.
L'effimera vive un giorno solo, e quando riceve un invito per "domani" non capisce cosa significhi.

E poi ci sono feste, tante feste, perché agli abitanti del bosco piace molto festeggiare, ma ognuno a modo suo: torte di fango per talpe e lombrichi, feste volanti per la rondine, che non si posa mai.

Le storie non hanno una morale, sembrano a volte sorridere di certe ossessioni degli animali (o di noi umani?), sicuramente inducono nel lettore pensieri, riflessioni e qualche sorriso su tante nostre debolezze, fissazioni o atteggiamenti che diamo per scontati.

Le stagioni di cui parla il titolo, che potrebbe erroneamente far pensare a racconti bucolici e tradizionali stile Boscodirovo, sono in realtà soltanto lo sfondo in cui si muovono questi personaggi modernissimi e ricchi di sfaccettature.


Originale e in qualche modo straniante è anche il rapporto tra testo e illustrazione, sia per struttura grafica che per contenuto. Ogni racconto è racchiuso in box chiari che poggiano su un'illustrazione ricchissima.
Sylvia Weve utilizza un codice visivo che richiama generi diversi, dai trattati scientifici alle geometrie impossibili di Escher, usate soprattutto nelle storie più surreali.


Il racconto visivo è racchiuso in una tavola unica, dove coesistono il prima e il dopo, e il protagonista è moltiplicato per essere mostrato nelle diverse azioni che compie.

Paricolari notazioni aggiungono appunti, dettagli e nozioni scientifiche che sono un extra rispetto alla narrazione.

Le storie sono all'apparenza slegate l'una dall'altra, ma a volte alcuni personaggi ritornano, riportando alcuni dettagli della loro storia in quella di altri, come quando lo struzzo e altri animali, infilando la testa sotto la sabbia, finiscono nella tana della talpa e del lombrico.


E così, Storie di animali per quattro stagioni non è mai uguale a se stesso, saltellando con curiosità tra pensieri esistenziali, dubbi lessicali, misteri, fissazioni e strane abitudini.

Il mio personaggio preferito? Certamente l'orso, che si prepara per l'arrivo di qualche ospite cucinando torte, e quando poi le taglia a fette non riesce a far corrispondere le fette al numero di ospiti, e con questa scusa se le mangia e ne cucina di nuove.


Le immagini che accompagnano questa storia sembrano fatte apposta per parlare di frazioni.
E così ho colto la palla al balzo per creare

il gioco delle torte frazionate.


Per giocare servono:
  • una tabella con quattro posti-torta per ogni giocatore
  • tante torte divise in mezzi, terzi, quarti, quinti e sesti.
  • due dadi.
Tabella e torte potete trovarle nel mio pdf stampabile.


A turno, ogni giocatore lancia i due dadi: quello con il numero più alto farà da denominatore, il più basso farà da numeratore. Il giocatore prenderà tante fette di torta quante indicate dai dadi.
Ad esempio, se i dadi fanno cinque e due, la frazione corrispondente sarà 2/5, quindi il giocatore potrà prendere due fette da 1/5.

Se dai dadi escono due numeri uguali, il giocatore può prendere una fetta a scelta (o, se preferite una partita più veloce e più "filologicamente" corretta, può prendere una torta intera).

Variante (più lenta) con un solo dado: il dado indica solo il denominatore, mentre il numeratore è sempre uno, quindi il giocatore prenderà una fetta per volta (da 1/2 se esce 2, da 1/3 se esce 3 e così via).

Le fette possono essere combinate a proprio piacimento e spostate durante la partita, così una torta portà essere composta da due metà, ma anche da una metà e tre sesti, o una metà, un terzo e un sesto, eccetera.

Vince chi completa per primo tutte e quattro le proprie torte.


In questo modo, sarà più divertente prendere confidenza con il valore delle frazioni e le loro equivalenze.
Anche se il metodo dell'orso resta sempre il mio preferito.


Questo post è dedicato a chi almeno una volta ha provato a contare il numero di "mamma!" pronunciati in un giorno (fermandosi come me verso le 11 di mattina dopo aver perso il conto).


Se non fosse che qui la femmina è la figlia maggiore, Cinque minuti di pace (Jill Murphy, Nord-sud edizioni) fotograferebbe perfettamente la mia situazione in casa: tre "elefantini" che mi seguono ovunque vada chiedendomi le cose più svariate (ok, l'ultima arrivata ancora non parla né cammina, ma a modo suo sa chiamarmi perfettamente).

La storia inizia con la mamma che arriva in cucina, dove i tre elefantini stanno facendo colazione, un po' come la fanno tanti bambini che conosciamo (io ne ho in mente un paio...): corn flakes per terra, barattoli rovesciati, latte un po' ovunque.


La mamma allora si prepara il suo vassoio con il the, il giornale e qualche cosa di dolce da mangiare, e prova ad appartarsi per godersi la sua colazione in santa pace.
Agli elefantini che le chiedono perché non possono seguirla risponde:
"Perché voglio cinque minuti di pace lontana da voi, ecco perché"

Letta così, su un libro, abituati come siamo alle realtà romanzate ed edulcorate, sembra una risposta cattiva e sgarbata. In realtà è soltanto una risposta vera.
A quante di noi è capitato di dirlo, in un modo o nell'altro?


Mamma elefante si prepara un bagno caldo e si gode la sua tranquillità.


Che naturalmente dura pochissimo: la figlia maggiore vuole leggerle il suo libro preferito, il medio vuole suonare per lei, il piccolo le porta i suoi giochi.
La mamma, sospirando, cede alle loro richieste, e ogni volta i piccoli si prendono qualche libertà in più (alla maggiore concede di leggere una pagina, ma lei ne legge quattro e mezza).

Tutti vogliono le sue attenzioni, tutti vogliono fare qualcosa per lei, anche se l'unica cosa che le farebbe davvero piacere è... che non facessero nulla.


Alla fine mamma elefante riuscirà a trovarsi un momento per sé, anche se non esattamente come aveva progettato.

Cinque minuti di pace parla alle mamme che a volte si sentono in colpa perché desiderano un po' di tranquillità. E parla ai bambini che vorrebbero far vedere alla mamma tutto ma proprio tutto quello che fanno, e a volte si sentono dire di no.
Gli elefantini "offrono" alla mamma le loro cose preferite, credono di farle un favore, e la risposta rassegnata dell'elefantessa esprime stanchezza e amore al tempo stesso.

Cinque minuti di pace è un albo che non ha una morale, non cerca una conciliazione tra i due punti di vista; non è, insomma, un libro "didattico". E per fortuna.
È semplicemente un libro che fa ridere (la rassegnazione della mamma, l'entusiasmo dei bimbi, i pasticci del piccolo Edo, il minore, sono molto divertenti) e in cui è facile identificarsi.

È in qualche modo un libro catartico, un libro che "ci capisce". E non è un caso che il Piccolo D (così simile al piccolo Edo del libro) se lo sia fatto leggere un milione di volte.

E ora vi saluto: sento un "mamma!" dalla sala. I miei cinque minuti di pacefiniscono qui. :)


Al di là di ogni invenzione, di ogni manifestazione, di ogni sorpresa, i gesti d'affetto che più ci coinvolgono, quelli più autentici, restano in fondo quelli che si rifanno in qualche modo ai bisogni primari: nutrire, scaldare.


Lucy e il filo dell'amicizia (Terre di mezzo editore) è un albo che unisce il calore di un gesto d'affetto all'allegria dei disegni e della storia creati dalla texana Vanessa Roeder.

La storia è semplice e un po' surreale. Un giorno Lucy trova un filo rosso e lo tira.


Finché scopre che all'altro capo del filo c'è un orso, al quale ha appena disfatto i pantaloni.


L'orso è arrabbiato, e Lucy prova a usare il filo in modo creativo per farlo ridere un po'. Niente da fare.


Fa allora diversi tentativi, uno più buffo e maldestro dell'altro, per ridargli un vestiario completo.


Alla fine troverà una soluzione sferruzzando un maglione, ma non sarà la soluzione che tutti si aspettano. Ma ciò che conta di più è che sarà riuscita a conquistare l'amicizia dell'orso.

In Lucy e il filo dell'amicizia bastano due colori, il nero e il rosso, per dare vita a un racconto vivace e non banale, che incuriosisce e racconta di come l'amicizia stia anche nel prendere qualcosa dall'altro e saperlo trasformare in un dono.

E poi, come si può resistere a un orso fatto a maglia?


E voi, sapete trasformare un filo in qualcosa da regalare?
Basta un semplice cartoncino per creare

un piccolo telaio fai da te


La forma e la lunghezza del cartoncino dipendono dal tipo di lavoro che volete ottenere: una copertina o un tappeto per le bambole saranno più larghi di un braccialetto, che deve essere stretto e lungo.
Fate dei tagli uniformi sul bordo del cartoncino e fateci passare un filo da un lato all'altro.


Sul retro, il filo dovrà passare da un taglio a quello accanto.


È utile (ma non indispensabile) usare dei bastoncini(come quelli da ceretta o da ghiacciolo) per distanziare il vostro lavoro dal bordo. Distanziate molto se volete ottenere un braccialetto (vi servirà più filo libero da legare, alla fine).
Ecco il telaio pronto con l'ordito:


Ora, con un perforatore, fate un buco al centro di un bastoncino, oppure legatevi semplicemente il filo. Altrimenti, se non avete bastoncini, fissate il filo a una graffetta o a un ago.
Iniziate a creare la vostra trama mandando il filo alternativamente sopra e sotto l'ordito.


Di tanto in tanto, usate il bastoncino per compattare la vostra trama, spingendola verso il bordo.


Quando avete finito, iniziate a togliere l'ordito dalle fessure e legatelo al capo libero della trama, da entrambi i lati (esistono metodi più professionali per fissare la vostra tessitura, ma questo è più semplice per i bambini).


Tagliate gli altri fili sul retro e legateli tra loro a due a due per fissare la trama.

Potete creare facilmente un braccialetto dell'amicizia o una copertina per una bambola.
Sui pantaloni per l'orso bisognerà invece lavorarci un po' di più.


   
In un mondo in cui tutti hanno tutto, qual è la vera ricchezza?


È un Paese all'incontrario quello che Alex Cousseau e Charles Dutertre ci raccontano in Il re senza reame (ed. Sinnos). Tutti i suoi sudditi hanno dei castelli e il re invece non ha niente di niente, quindi sta seduto e aspetta.



A fargli compagnia arriva presto un gatto, che non avendo di meglio da fare inizia ad aspettare con lui.


Il re ha talmente poco che non ha nemmeno un nome. Tutti lo chiamano semplicemente "re".
E nemmeno il gatto ha un nome. Tutti lo chiamano semplicemente "gatto".


Da qui inizia una serie di vicende fatte di incontri con strani personaggi e di piccoli stratagemmi del gatto (un gatto che a un certo punto infilerà un paio di stivali, tanto per rendere più fiabesca la storia).
In questo Paese così assurdo, c'è perfino un pesce che preferisce farsi mangiare dal gatto (parlerà poi dalla sua pancia) che stare con la signora che lo teneva.


Il mondo di Il re senza reame è tutto capovolto, ma le riflessioni che genera sono concrete e reali.
Ricchezza significa possedere tante cose o avere qualcuno con cui condividere il poco che si ha? Si può possedere una persona? E un gatto? Un re è re per il proprio nome o perché governa su qualcosa?

Il re senza reame ha due distinti piani di lettura: la fiaba, con le sue stranezze e le sue vicende, e la metafora, più concettuale, in cui ogni elemento diventa una chiave di lettura della realtà.
La presenza di personaggi chiave delle fiabe classiche, ma decontestualizzati (il cavaliere, il gatto con gli stivali che però non è "quel" gatto con gli stivali) contribuisce a smontare la costruzione che ci si attende da un racconto, con un effetto straniante che accende domande nel lettore.
Sembra una fiaba d'altri tempi, ma le sue suggestioni sono più che mai attuali, o meglio senza tempo.

Le illustrazioni vintage, dai colori piatti e brulicanti di dettagli e strane prospettive come moderni arabeschi, ci aiutano a entrare nella dimensione fiabesca e invitano alla caccia al dettaglio.

Ognuno può essere re, senza un regno.
Possiamo inventarci re noi stessi. Basta una corona, anche di carta (in fondo, per regnare su qualcosa che non c'è, non servono orpelli preziosi).
Potete costruirla con la tecnica dell'origami, a partire da tanti quadrati di carta colorata, di dimensione da 10 a 15 cm circa.
Piegate ogni quadrato in quattro per "segnarne" i quattro quadranti, quindi riapritelo e ripiegate a punta due angoli.


Poi piegate a metà il rettangolo rimasto, in modo che il bordo tocchi le due punte ripiegate.


E ripiegate ancora una volta verso l'alto.
Avete ottenuto un modulo. Ora dovete infilare i moduli uno nell'altro fino a metà, fino a raggiungere la larghezza desiderata. Potete continuare sempre nella stessa direzione o alternare tenendo una punta all'interno e una all'esterno, come ho fatto io.


A questo punto infilate una dentro l'altra le due estremità per chiudere la corona.



Ok, forse non sono molto brava a spiegare le istruzioni degli origami.
Facciamo così: vi metto un video che ho trovato su YouTube e spiega tutto passo passo.


Che ne dite, più semplice ora?
Siete pronti a diventare re e regine? E avete deciso su cosa regnerete?



Qui si regna sul Paese degli Spettinati. Pronti a combattere ogni pettine che osi assalirci.


Qual è la vostra routine prima della nanna?
Da noi dopo cena c'è un cartone, poi ci si mette il pigiama, si va in bagno e si lavano i denti. Un paio di albi al Piccolo D e un paio di capitoli di qualche libro al Piccolo T, poi si spegne la luce (e a quel punto Piccolo D e Piccolo T iniziano a parlare di Pokemon, ma questa è un'altra storia).


Uno dei nostri libri preferiti per la nanna in questi ultimi giorni è Buonanotte signor Panda, di Steve Anthony, edito da Zoolibri, in cui ritroviamo gli irresistibili protagonisti che avevamo amato in Per favore signor Panda (qui la mia recensione).


Anche in questo albo, il signor Panda si confronta con altri animali. Tutti stanno per andare a letto e passano a dargli la buonanotte, mentre il Panda si sta preparando.
Tutti, però, hanno dimenticato qualcosa, e il Panda non manca di ricordarglielo: c'è chi non ha lavato i denti, chi non si è lavato, chi non ha messo il pigiama. Ma nessuno sembra curarsene; nessuno, tranne il lemure, che ad ogni doppia pagina sbuca da qualche parte per far vedere al Panda che lui, a differenza degli altri, ha ricordato tutto.


L'espressione tra l'indifferente e il rassegnato del Panda fa da contrasto con i sorrisi entusiasti del lemure per arricchire una lettura fatta di botta-e-risposta e delle voci diverse di tutti gli animali.

Buonanotte signor Panda sfrutta pienamente la ricchezza della lettura ad alta voce offrendo molteplici possibilità di cambiare timbro vocale ed espressione: è un libro che diverte e si lascia godere, offrendo anche ai bambini l'appiglio rassicurante di una routine a loro familiare, come quella della preparazione per la nanna.

E i vari "buonanotte" ad ognuno degli animali aiutano ad accompagnare i bambini al sonno.


Alla fine sarà proprio il Panda ad aver dimenticato qualcosa, e il lemure glielo ricorderà: non si va mai a dormire senza un abbraccio della buonanotte.


Buonanotte signor Panda è perfetto per la lettura dai 3 anni, proprio nella fase in cui i bambini iniziano ad acquisire indipendenza nelle proprie routine, imparando gradualmente a vestirsi e prepararsi da soli.

Per aiutarli, può essere utile costruire una tabella delle routine del risveglio e pre-nanna, da appendere da qualche parte.
Per una versione base, basterà un cartoncino e un pennarello per disegnare, ma potete anche creare una tabella fatta a finestrelle da chiudere ogni volta che uno dei compiti è stato svolto.


Per chiudere le finestrelle, potete applicare del nastro adesivo magnetico sulla parte principale e  delle graffette alle bande di cartoncino che si aprono (fate prima delle prove di tenuta con diverse graffette. Quelle non rivestite ovviamente tengono di più).
Una buona alternativa, se il cartoncino è resistente, è usare delle striscette di velcro.


E anche se non li inserite nella tabella delle routine, non dimenticatevi mai gli abbracci della buonanotte.


   
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Eccomi

Copywriter e anche un po' account, co-autrice di fumetti, dilettante (ma appassionata) del fai da te, navigatrice compulsiva, divoratrice di libri e di serie TV. Divido la casa con un marito, tre figli e parecchi gatti di polvere.

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