Nuvole in scatola
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Se pensate a un libro di anatomia umana, che sensazioni vi vengono in mente? Probabilmente curiosità, interesse, rigore, forse anche un po' di noia.
Ma lo avete mai trovato un libro di anatomia che vi incantasse con le sue immagini? E uno che vi facesse ridere?


Eppure è proprio questo quello che succede quando si mettono insieme due autori, entrambi Premio Andersen, come Gek Tessaro e Andrea Valente. Da questa unione scoppiettante è nato Dalla testa ai piedi. Sopra sotto dentro fuori il corpo umano, un insolito "manuale di anatomia" di Editoriale Scienza, che fonde arte, scienza e humour.


Dalla testa ai piedi è suddiviso in sette sezioni, ognuna delle quali affronta un diverso aspetto del corpo umano. Che si tratti di un libro insolito è evidente già dal titolo di questi capitoli: " Con la testa sulle spalle", "Lo scheletro nell’armadio" e così via.


Sorprende la scrittura vivace e frizzante di Andrea Valente, precisa e rigorosa nei dettagli e nelle spiegazioni ma allo stesso tempo alla continua ricerca di farsi complice e strizzare l'occhio a chi legge.
E poi ci sono loro, le illustrazioni di Gek Tessaro, collage coloratissimi dai contorni apparentemente grossolani, che riescono a dare espressività anche alla sezione di una testa (con un occhio che guarda giù, verso la sua gola portata alla luce del sole), o a uno scheletro, che sembra perplesso di essere rimasto così, solo ossa.


È come se ogni spiegazione scientifica fosse accompagnata da una piccola opera d'arte, che aggiunge l'incanto dell'occhio a quello della scoperta.
In ogni pagina o quasi, alla parte divulgativa "anatomica" si aggiunge qualche curiosità linguistica, che racconta e spiega, sempre in toni leggeri e spesso scherzosi, tutti i modi di dire legati a quella parte del corpo.


Non manca il capitolo "Anche dentro le mutande", che con rigore e semplicità parla di vulva, pene e... sedere.


Dalla testa ai piedi è insomma un manuale che è anche un racconto, che è anche un incanto per gli occhi.
Le immagini materiche di Gek Tessaro si fanno vive sulle pagine; viene voglia di ritagliarle, di ricostruirle, di giocarci. Viene voglia di fare un collage, o un puzzle, magari preparando tanti pezzetti di carta colorata con la forma dei vari organi e ricostruendoli nel modo giusto.




Potete farlo con lo scheletro, ad esempio, ricalcando direttamente le immagini del libro o scaricando il mio pdf stampabile.


Un colpo di forbici, qualche fermacampioni, e siamo pronti per parlare in modo divertente di cranio, cassa toracica, tibia e perone.


Oppure per decorare la casa in vista di Halloween. Un po' presto, dite?


 
Qual è la prima cosa che vi viene in mente se vi dico "fenicottero"? La prima dopo tutti i vari accessori-moda degli ultimi anni, intendo.
Probabilmente il suo colore rosa.


Nelle illustrazioni di Marije Tolman certamente il rosa è un elemento fondamentale: è l'identità del protagonista che spicca in ogni pagina, qualunque cosa accada.
Sì, perché Felicottero (testo di  Kim Crabbels, edizioni Sinnos) è prima di tutto la storia di un personaggio e di come evolve restando se stesso.

Felicottero parla di disabilità, ma lo fa senza retorica, e mettendoci a volte un po' di poesia:
A Fenicottero manca una zampa,

e alla zampa manca Fenicottero.


Fenicottero era un campione acclamato in moltissime discipline (come i trampoli: in fondo, è un trampoliere!), sempre con un grande seguito di amici ad incitarlo.


Poi un brutto un giorno, in seguito a una caduta, perde una gamba. Fenicottero resta solo, una macchia rosa desolata in un fondo deserto, tra palme che piegano i rami come lui piega la testa, intristito.


Sarà un millepiedi (proprio lui, che di zampe ne ha fin troppe!) a spiegargli, anzi, a dimostrargli senza parole ma con una certa arguzia, che può ancora farcela, che è ancora il campione di una volta, che basta solo cambiare prospettiva, e volare.

Sarà sempre lui a richiamare attorno al fenicottero coloro che lo avevano abbandonato, perché a Fenicottero manca una zampa, ma più di ogni altra cosa, mancano i suoi amici.


Fenicottero riprende a volare, diventa Felicottero, e in questa storia ci insegna, a volte in modo esplicito, a volte lasciandolo intuire, tante cose sulla disabilità.
Ad esempio, che la vera differenza non la fanno le tue capacità, ma lo sguardo e soprattutto la vicinanza delle persone attorno a te.
Oppure, che non è un'abilità in più o in meno a cambiare ciò che sei: Fenicottero resta sempre del suo rosa sgargiante, deve solo ritrovare il suo coraggio di andare avanti. E in fondo, da prima, non è cambiato poi molto: non è un caso, credo, che per raccontare questa storia (ispirata peraltro all'atleta paralimpico Marc Herremans) sia stato scelto un uccello che già normalmente vediamo poggiarsi su una zampa sola, come se l'altra non esistesse.

Felicottero è un racconto mai patetico, alleggerito da un testo ironico e dalle immagini colorate, perché così dovrebbe essere la nostra visione della diversità: semplicemente come un colore tra tanti nel nostro mondo.

E voi, lo volete costruire un Felicottero?
Probabilmente sapete già fare (o lo avrete vsto da qualche amico) un "elicottero" partendo da un rettangolo di carta.


Basta fare qualche piccola modifica, e inserire un collo e un becco tra le due eliche (ops, ali), per trasformare l'elicottero in Felicottero. Nel mio pdf stampabile troverete la traccia di entrambe le versioni: quella classica e quella "glamour" (vanno ancora di moda i fenicotteri?).


Basta ritagliare lungo le linee continue e piegare lungo le linee tratteggiate. Il piede del fenicottero, una volta ripiegati i due lembi, uno da un lato e uno dall'altro, va ripiegato su se stesso e bloccato con un fermaglio che servirà anche come peso per dargli la giusta direzione di volo.
Le ali vanno piegate una da un lato e una dall'altro, lasciando dritta la testa.


Ora non basta che scagliarlo lontano da sé, leggermente verso l'alto, per vederlo scendere ruotando le ali come un elicottero.


Come Felicottero insegna, è tutta una questione di buttarsi e lasciarsi andare.


Quando in copertina leggo i nomi di Michaël Escoffier e Matthieu Maudet, so già che ho davanti un libro imperdibile.


A taaavola! (ed. Babalibri, come tutta la serie "Buongiorno...", tra cui Buongiorno dottore di cui avevo parlato qui) non delude certo le aspettative.

La situazione descritta la conoscete bene, ne sono certa: la mamma che mette in tavola la minestra, il bimbo che si rifiuta di mangiarla.


La mamma insiste perché almeno la assaggi, ma il bimbo se ne esce con le solite scuse.


È allora che la mamma perde la pazienza e passa alle minacce:
"Se non mangi, sarà il lupo a mangiare te"
E siccome non siamo nella cucina di molte di noi, ma nella fantasia straripante di Escoffier e Maudet, al richiamo della mamma il lupo arriva davvero!

Peccato che anche lui si metta a fare i capricci. I bambini non gli piacciono.
Ma la mamma è sempre la mamma, e neanche dal lupo accetta un "non mi piace" senza nemmeno un assaggio.


Il lupo replica lo stesso copione del bimbo, con le stesse parole.


Che fare? Ovvio: per mettere a tacere il lupo con i suoi capricci, si chiama un orco che mangi il lupo!
E il finale? A sorpresa (eppure, in un certo senso e per quanto possibile in questo assurdo contesto, vero e "credibile"), di quelli a cui Escoffier e Maudet ci hanno abituato.

Scoppiettante, irresistibile, semplicissimo nelle sue 36 pagine con pochissimo testo e grandi immagini, A taaavola! si presta ad essere letto ad alta voce, nella sua comicità teatrale, ma anche ad essere imparato a memoria dai bimbi e sfogliato in autonomia grazie alle pagine cartonate.

Un "must have" che ironizza su capricci, minacce, punizioni e sui bambini che dicono "non mi piace" senza assaggiare.

Ma senza chiamare in soccorso il lupo, c'è un modo per rendere le minestre un po' più accattivanti agli occhi dei bambini?
A volte un bimbo si rifiuta di assaggiare un piatto solo per l'aspetto o il colore poco rassicurante ("Cos'è quella cosa verde, mamma?"). Una carrellata su Pinterest con la chiave "food art for kids" può dare molti spunti per rendere divertente e appetibile anche una semplice minestra.

I giapponesi creano delle sculture incredibili con delle palline di riso: orsetti e cani che fanno il bagno nella zuppa, omini che sembrano a mollo nella vasca da bagno, addirittura personaggi come Snoopy, con tanto di muso e corpo.
Senza diventare necessariamente artisti del basmati, però, potete usare una semplice formina a semisfera e con un pezzetto di carota creare il becco di una simpatica paperella.
(fonte).
Se ve la cavate col disegno più che con la "scultura", armatevi di siringa o sac à poche.


Potete divertirvi a disegnare una faccia, un oggetto o un'intera scenetta sulla superficie di una passata colorata usando della panna o della panna acida.

(fonte)
Qualcosa di più semplice?

Disegnate occhi e bocca alla vostra minestra con delle formine ritagliate nella mozzarella.

(fonte)

Oppure:

Se usate delle ciotoline piccole, "uscite" con la vostra creazione dai limiti della minestra creando delle orecchie-crostino.

(fonte).

Infine: perché limitarsi a decorare un piatto, se il piatto può diventare anche un gioco?

Create dei crostini-pesciolini e sfidate i bambini a pescarli con il cucchiaio!
Probabilmente abboccheranno. ;)


Le temperature sono improvvisamente salite, le maniche si sono accorciate e l'erba in giardino allungata (è ora di tagliarla!). Quale momento migliore per... un libro sull'autunno?

Con uno strano tempismo, Zoolibri ha da poco ristampato un libro amatissimo, Il domatore di foglie di Pina Irace e Maria Moy.

È arrivato l'autunno (nell'albo, intendo), le foglie si sono fatte marroni e secche, ma... non si staccano dagli alberi.
Manca lui (è scomparso!): il Domatore di foglie.

Lui che, con la bacchetta da domatore, insegna alle foglie i volteggi, le piroette, gli svolazzi, le salite, le discese, i mulinelli, le danze, i prilli, le giravolte, le planate e le cadute.


Come una squadra rimasta improvvisamente senza allenatore, le foglie non sanno come muoversi, e si rifiutano di staccarsi dai rami. Gli alberi iniziano ad essere stanchi.


Finché una sola, piccola fogliolina ambiziosa, decide di spiccare il volo – letteralmente – da sola.


Le immagini di Maria Moya ci regalano degli umani oservatori e una natura incredibilmente espressiva: è lei. indubbiamente, la protagonista, quella con più carattere.
Il modo in cui gli alberi si piegano o le foglie volteggiano è già un racconto.

Le parole di Pina Irace incantano con un lessico semplice, senza troppi ricami: è il contenuto, la storia ad essere poesia, senza sovrastrutture lessicali.


Il domatore di foglie, nella sua atmosfera magica, si consente anche qualche piccolo intermezzo ironico, e il finale stesso lo è, e strappa un sorriso nel raccontarci dov'era finito questo incredibile personaggio.

Sì, la natura può raccontare ed esprimere tante storie, e la primavera è il momento ideale per rappresentarle tutte, con i materiali che ci offre.
Con i vostri bambini, potete provare a raffigurare le stagioni partendo soltanto da quello che potete trovare in giardino (e un cartone, e un po' di colla).


Quattro legnetti un po' ramificati saranno gli alberi di partenza.
Su di essi, si possono incollare fiori per far sbocciare la primavera, foglioline verdi estive, qualche foglia secca (in qualche angolo ne troverete certamente ancora qualcuna) per l'autunno.

E la neve invernale?


Se osservate bene, troverete qualcosa di morbido e bianco per rappresentare anche lei.


Potete così dipingere senza pennelli né colori, solo osservando, raccogliendo e incollando.
Mi raccomando: alla fine, fotografate la vostra opera d'arte, perché non durerà a lungo: meno ancora di quanto durano ormai le mezze stagioni.


Le biografie di grandi donne sono un tema ricorrente, ultimamente, nell'editoria italiana.
Un bene? Un male? In un certo senso entrambi.
Se è bello che si sia sollevata una nuova attenzione sulla letteratura al femminile, è altrettanto vero che questa nuova moda tende a mettere in secondo piano tanta letteratura preesistente, e che in certi casi, anziché abbattere gli stereotipi, li acuisce (qui le mie riflessioni, in occasione della festa della donna).

Ci sono poi case editrici che non seguono questa moda, per un semplice motivo: l'hanno anticipata.



Senza il clamore e le manovre di altre collane o editori, Editoriale Scienza già da anni propone biografie di donne che si sono distinte in ambito scientifico, per ricordare che la scienza non fa alcuna distinzione di genere.

L'erba magica di Tu Youyou. La scienziata che sconfisse la malaria è un perfetto esempio di questa attenzione all'abbattimento dei pregiudizi di genere.
Il nome di Tu Youyou non è particolarmente noto, sebbene la donna abbia vinto il premio Nobel nel 2015. E questo ci insegna che non serve essere famosi, per essere grandi.
La sua storia inizia quando era bambina, in una Cina d'altri tempi. Affascinata dai gesti di un anziano signore, che se ne andava in giro con una cesta piena di erbe, decide di seguirlo.



Da lui, Tu Youyou impara che ogni erba ha una sua proprietà, e che per conoscerle bisogna usare tutti i sensi: osservare la natura, annusare, toccare, assaggiare.



Tu Youyou decide di dedicare la propria vita a curare con le erbe, proprio come faceva il vecchio che l'aveva fatta entrare nel proprio laboratorio.
Con tenacia e determinazione, si laurea in medicina, e nel suo laboratorio unisce l'antica sapienza della medicina cinese e della natura a ciò che ha imparato con i suoi studi.
Quando negli anni '60 una grande epidemia di malaria si diffonde in tutta la Cina, Tu YouYou e il suo staff vengono inseriti in un progetto finalizzato a trovare una cura per questa terribile malattia.



Tu Youyou cerca la soluzione tra gli antichi libri di medicina tradizionale cinese, ma il percorso non è semplice e prima di riuscire ad estrarre dall'erba individuata la sostanza curativa molti tentativi falliranno.

Le immagini riassumono in poche immagini simboliche l'iter che ha portato al rilascio di questa nuova medicina, tratta dall'Artemisia annua: l'estrazione del principio attivo sotto forma di pasta verde, la sperimentazione degli scienziati su se stessi, per verificare che non avesse effetti collaterali pericolosi, la fase di sperimentazione sui topi, la trasformazione nei cristalli che costituivano la medicina vera e propria.

L'artemisina, scoperta e sintetizzata da Tu Youyou, non solo si rivela un rimedio efficace contro la malaria, ma si scopre essere sicura, a differenza del chinino usato in precedenza, anche sulle donne in gravidanza e sui loro bambini.



In L'erba magica di Tu Youyou, le parole del poeta cinese Xu Lu accompagnano le immagini evocative dell'italiana Alice Coppini per raccontarci una storia piena di suggestioni quasi sensoriali.
Sfogliando le pagine, sembra di cogliere i profumi, di vivere le ambientazioni, di sfiorare le foglie, i fiori e le bacche e di sentirne il sapore, proprio come fa la protagonista.
Il racconto esprime perfettamente la fusione di due mondi: quello della fitoterapia e della sua arte, nata dall'osservzione e dall'armonia con la natura, e quello dello studio e del rigore scientifico, indispensabili per ottenere un risultato. Non c'è nulla di magico, nonistante il titolo del libro, tranne le atmosfere di quella Cina e la passione della protagonista.

Che si voglia diventare medici o scienziati o meno, dalla natura c'è sempre e comunque da imparare.
Per allenarci ad osservarla, abbiamo giocato a una piccola caccia al tesoro, iniziata da un foglio di carta, sul quale avevo disegnato i contorni di una foglia.

Al Piccolo T, il compito di esplorare le erbe del nostro prato fino a trovare quella giusta.



Dal nostro tarassaco non ricaveremo alcun rimedio per temibili malattie, naturalmente. Ma siamo gente semplice, io e il Piccolo T: ci accontenteremo di una frittatina.

C'è una tara di cui una bella fetta della produzione italiana di contenuti è affetta: la retorica.
La cosa appare abbastanza evidente confrontando serie tv, spot televisivi e spesso anche libri stranieri con i nostri. E forse, vedendo quante polemiche può sollevare qualcosa che osi anche solo minimamente distaccarsi dal politically correct, la cosa non dovrebbe neppure stupire.
Il problema della retorica è principalmente uno: è finta. E superficiale (ok, adesso sono due).
Uno forse non se ne accorge seguendo una storia, può anche appassionarsi alle vicende e ai personaggi, ma alla fine non riesce davvero a immedesimarsi, o se lo fa non gli resta nulla che lo abbia smosso, cambiato, fatto riflettere.
Questo diventa ancora più evidente quando si toccano tematiche sensibili come la disabilità.


Dove ti porta un bus di Anna Lavatelli (Giunti editore) mi è piaciuto per questo: perché non ha paura di dire cose scomode, di essere vero.
La co-protagonista, Lucilla, una bambina in sedia a rotelle, è una bimba intelligente e intraprendente, ma anche una rompiscatole che vuole sempre l'ultima parola. Perché nella realtà è questo che succede: nessuno diventa santo solo per essere diventato disabile, ed è questo il motivo per cui nelle storie patinate non ci si può immedesimare: perché poi, nella vita vera, non ci troviamo di fronte a esseri perfetti e senza sfaccettature.


Manolo, protagonista del libro, appena trasferito con sua madre in una nuova città, è timido e infastidito dall'esuberanza di Lucilla.
E come spesso succede, si lascia trascinare dal branco, cercando rifugio alla sua timidezza nel gruppo dei ragazzi più popolari della classe, finendo per lasciare Lucilla in disparte.

Non so se potete capire le mie ragioni, ma provate a immaginare quel che provavo dentro. [...] In fin dei conti, stavo anch'io seduto su una sedia a rotelle, di quelle che da fuori non si vedono, ma che rendono ugualmente difficile il cammino.

Ecco un'altra riflessione scomoda (ma come? paragonare la timidezza a un handicap?), ma reale: ognuno ha la propria sedia a rotelle, solo che alcune non si vedono.

No, non stiamo parlando di bullismo: Manolo e i suoi amici non fanno nulla di male a Lucilla. Si tratta semplicemente della situazione più naturale che possa succedere in ogni classe: quella dei "gruppetti". E i gruppetti, sì, possono finire per emarginare una bambina sulla sedia a rotelle, perché l'empatia e l'altruismo non sono sempre facili né spontanei, e dover modificare i propri giochi, o le destinazioni delle proprie gite, è seccante.


È questa la chiave che trova Dove ti porta un bus per parlare di disabilità in modo reale, concreto, vero: avere a che fare con un disabile non è facile, comporta una serie di problemi e di difficoltà da affrontare. Raccontare il contrario sarebbe semplicemente una bugia. Raccontare le cose come stanno è invece l'unico modo per permettere a chi legge di riconoscersi, e magari di riflettere, e magari di cambiare.


Grazie a una svolta inaspettata, Manolo si troverà alla fine al fianco di Lucilla, in un gesto "alla Rosa Parks" che porterà all'abbattimento di una delle barriere architettoniche che ogni giorno rendevano più difficile la vita della bambina.
E anche qui, i dettagli fanno la differenza: quando parla della risonanza mediatica del loro gesto, Manolo nomina prima di tutto Facebook, Twitter e YouTube (perché a un ragazzino, in fondo, interessa davvero finire sul giornale?).

Dove ti porta un bus è un romanzo breve, semplice (92 pagine in stampatello minuscolo, con font abbastanza grande da poter essere letto anche da lettori alle prime armi), che racconta la scuola e la disabilità, e offre molti spunti di riflessione sulle barriere architettoniche e sociali che possono ostacolare un ragazzo in sedia a rotelle.
Primo fra tutti: ma quant'è difficile immedesimarsi in qualcosa che non si è mai provato sulla propria pelle?

Ecco perché può essere interessante, dopo la lettura, fare qualche piccolo esperimento.

Primo step: una camminata a rotelle.
Alla prossima passeggiata in città, fingete di essere in sedia a rotelle. Evitate scalini e ostacoli e provate a vedere quanto è difficile trovare la strada giusta da percorrere.
Questa sfida può trasformarsi anche in un gioco: chi per primo "dimentica" il proprio handicap e sale un gradino, ha un punto di penalità. Vince chi riesce a completare il percorso immedesimandosi meglio.



Secondo step: architetti senza barriere.
La prossima volta che costruirete una casa o un palazzo con i Lego, fatelo senza barriere. Ogni volta che c'è una scala, ci deve essere anche uno scivolo, oppure un ascensore.
Quanto è più difficile progettarlo?

Certo questo non basterà a formare dei futuri architetti, ma forse aiuterà a crescere delle persone che da adulte non parcheggino al posto sbagliato.


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Eccomi

Copywriter e anche un po' account, co-autrice di fumetti, dilettante (ma appassionata) del fai da te, navigatrice compulsiva, divoratrice di libri e di serie TV. Divido la casa con un marito, tre figli e parecchi gatti di polvere.

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