Nuvole in scatola
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Vi è mai capitato di temere di leggere un libro o di guardare un film per paura di restare delusi da una storia, da un autore o da un regista che amavate particolarmente?


È stato così per me con La BandaCadabra di Neil Patrick Harris (editrice Il Castoro).
Ho amato il Neil Patrick Harris attore in How I met your mother e in Una serie di sfortunati eventi. Ho adorato il Neil Patrick Harris papà quando ho visto i travestimenti a tema della sua famiglia (cercate su Google: sono fantastici).
Come avrei reagito se il Neil Patrick Harris scrittore mi avesse deluso?

Ma tant'è. La sua personalità mi incuriosiva troppo e l'argomento principale del libro – la magia – mi stuzzicava, e così ho voluto correre il rischio.

Be', La BandaCadabra (titolo che Maria Laura Capobianco ha tradotto splendidamente) non mi ha deluso.
È un romanzo coinvolgente, avventuroso, curioso, con uno stile fresco e qualche trovata accattivante.


La storia è quella di Carter, giovane orfano che vive con uno zio imbroglione e farabutto. Appassionato di trucchi di magia, che gli erano stati insegnati dai genitori, è ora costretto ad affiancare il suo tutore che usa questi trucchi per derubare la gente.
Nel primo capitolo del romanzo, lo vediamo fuggire da questa vita, nella quale non si riconosce.


Arrivato nella cittadina di Mineral Wells, si imbatterà in una fiera ambulante gestita dall'avido e truffaldino B. B. Bosso, che non potrà fare a meno di notare il suo talento nei giochi di prestigio, e nell'affascinante prestigiatore Vernon, che a differenza di Bosso e dello zio di Carter sembra considerare la magia un mezzo per intrattenere e non per derubare gli altri.

Conoscerà poi Leila, figlia adottiva di Vernon e dell'"altro signor Vernon", Theo e Ridley, un gruppo di ragazzi appassionati di magia. Con loro metterà a punto nuovi trucchi e vivrà avvincenti avventure, ma soprattutto scoprirà che la vera magia esiste: non nei trucchi e nei giochi di prestigio, ma nel calore dell'amicizia e della famiglia.

Nonostante l'evidente polarizzazione in "buoni e cattivi" (nessun colpo di scena: chi sembra buono da subito lo è, e viceversa) e spiegazioni a volte troppo esplicite, ai limiti della credibilità, sia nei dialoghi che nella prosa, La BandaCadabra non manca di catturare il lettore con le sue vicende, complice anche uno stile narrativo accattivante, che spesso sospende la storia per rompere la quarta parete e spiegare al lettore qualche scelta liguistica o coinvolgerlo in prima persona in una riflessione.

I capitoli sono anche intervallati da piccole lezioni di prestidigitazione e trucchi di prestigio (Neil Patrick Harris è anche presidente del club "Magic Castle" di Hollywood). Ho particolarmente apprezzato l'approccio generale a questo argomento: non si lasciano porte aperte a cialtroni e mistificatori. Si comunica chiaramente che gli spettacoli di magia non sono altro che trucchi (che possono essere fatti a fin di bene o per ingannare) e che la magia, quella vera, è solo quella che si trova nell'animo delle persone.


Ad aumentare l'aura di mistero e stupore, piccoli messaggi in codice nascosti tra le pagine del libro, che il lettre dovrà decodificare.
La BandaCadabra è un romanzo dalle pagine fitte e con un lessico a volte ricercato, non adatto ai lettori alle primissime armi. Le illustrazioni sono poche e non particolarmente determinanti nella comprensione del libro: bastano le parole e le descrizioni, ben dettagliate ma mai eccessive, a far comparire davanti agli occhi di chi legge scenari, visi, espressioni e ambientazioni. Come per magia.

Ehi, psst: per caso anche voi, come il Piccolo T, vi siete appassionati all'idea di poter fare uno spettacolo di prestigio?
Allora vi lascio uno strumento facile facile da costruire:

 

il portafogli magico.


Bastano due rettangoli di cartone e due, altrettanto grandi, di cartoncino colorato, oltre a quattro nastri di stoffa.



Sistemate i nastri a X su uno dei cartoncini, e paralleli sull'altro. 


Fissate sul retro i nastri con del nastro adesivo, ma da un lato solo: dall'altro lato, andranno fissati non al proprio cartoncino, ma all'altro.

Forse è più semplice se ve lo faccio vedere con uno schema (il colore "sbiadito" indica che il nastro si trova sul retro del cartoncino).

Ora, avete il vostro portafogli magico, che si apre da entrambe le parti.
(se non sono stata chiara, cercate "magic wallet" su youTube: troverete molti tutorial.)

Se infilate una banconota nel sostegno "a croce" potete (girando abilmente il portafogli tra le mani per camuffare il fatto che lo aprite dall'atro lato) spostarla magicamente nel sostegno parallelo.


Volete fare di più? Volete far sparire una moneta?
Prendete due quadrati di carta e piegateli in nove quadranti:


Ora incollateli con del biadesivo al centro del sostegno a croce, uno da un lato e uno dall'altro, tenendo l'apertura verso l'esterno.


Apritene uno, appoggiateci una moneta, richiudetelo, girate il portafogli tra le mani e... abracadabra!



La moneta scompare! Fatela anche riapparire, però, soprattutto se arriva dal pubblico: non vorrete mica fare gli imbroglioni come lo zio di Carter, vero?


La prima volta che ho sentito parlare di coding riferito ai bambini ho avuto due reazioni contemporanee ed opposte. Il mio lato "montessoriano" ha pensato che ci sono già fin troppe occasioni, per i bambini, di avere a che fare con la tecnologia. Il mio lato nerd ha esclamato qualcosa tipo: "Bazinga!".


Riflettendo e informandomi meglio ho scoperto che fare coding non significa soltanto creare programmi, ma sviluppare un tipo di pensiero in qualche modo complementare a quello dell'immaginazione, ma altrettanto importante.
Significa imparare il concetto di sequenza e di istruzione.
Significa anche imparare a mettersi nei panni dell'altro, per quel che riguarda lo spazio (la mia destra e la mia sinistra non corrispondono sempre alle tue) ma anche le informazioni (anche voi avete bimbi che omettono sistematicamente il soggetto nelle frasi, convinti che abbiate in testa le stesse cose che pensano loro?).

A raccontare nel dettaglio ai bambini il mondo del coding è arrivato Apprendisti coder, un manuale giocoso edito da Editoriale Scienza, che offre una panoramica molto ampia su questo argomento, tra spunti teorici e molta pratica, sia offline che online.

Dopo una spiegazione di cosa sia il coding e delle sue possibili applicazioni, Apprendisti coder propone un primo esercizio, solo all'apparenza semplice, da fare in coppia, l'uno nei panni del coder, che dà istruzioni su un disegno, l'altro in quelli di un robot che lo esegue.

Emergono qui, già offline, moltissime cose a cui non siamo abituati a pensare. Il primo tentativo di disegno sarà difficoltoso, costringerà a riflettere sul modo in cui siamo abituati a dare istruzioni, e molto probabilmente finirà in un pasticcio (almeno, per me e il Piccolo T è stato così), ma già dal secondo tentativo gli scogli saranno superati e si imparerà a "pensare da programmatore".


Si passa poi a capire come "pensa" un computer, a partire dal sistema binario per accennare ai diversi linguaggi di programmazione.


Ed è qui che inizia la programmazione vera e propria: dalla teoria, il libro si sposta alla pratica, con un'introduzione a Scratch, ambiente di programmazione gratuito nato dal MIT a scopo didattico ed educativo.
Apprendisti coder ne spiega le basi e con esempi concreti accompagna il bambino alla creazione del suo primo progetto.


Spaziando poi dall'offline all'online e dalla teoria alla pratica (ci avete mai pensato? Anche imparare un ballo è una forma di coding), il libro spiega e poi applica concetti come i diagrammi di flusso, insegna qualche elemento di disegno e animazione, e anche applicazioni come la creazione di una musica, da tradurre anche in questo caso in un progetto Snatch.


Per finire, non manca un'introduzione all'html e alla costruzione di pagine web: un modo importante per far capire la struttura dietro a uno strumento che i bambini usano con sempre maggiore disinvoltura, ma spesso senza troppa consapevolezza.

A rendere ancora più piacevole e giocoso questo manuale, soluzioni cartotecniche come i robot fustellati da staccare e costruire per poi sfidarsi in una "gara di programmazione", poster e stickers da attaccare a ogni capitolo come segnale di "missione compiuta".
Così, insegnare il coding ngli anni della primaria diventa un gioco.

E prima? È possibile introdurre al coding, magari senza mettere le mani su tablet, smartphone o pc?
Certo che sì: lo si può fare giocando, e adattando la difficoltà del gioco all'età del bambino.
Bastano un foglio quadrettato e una matita per disegnare una matrice su cui spostarsi, ostacoli da evitare, un punto di partenza e un punto di arrivo, per "programmare" un percorso attraverso semplici istruzioni.
Se preferite, scaricate il mio pdf stampabile con una tabella, delle tessere da distribuire e due modalità diverse di gioco.


Potete giocare in due, insieme, impersonificando rispettivamente il coder e il robot: dopo aver posizionato inizio, obiettivo e i muri da evitare, il coder dovrà posizionare (prima sulla tabella, poi, una volta presa dimestichezza, al di fuori) le istruzioni che il robot dovrà seguire.

Oppure trasformate il gioco in una sfida uno contro uno, posizionando due partenze e un solo arrivo, oltre agli ostacoli in mezzo, e usando le frecce come carte da giocare.
Si inizia con tre carte-freccia ciascuno.
A ogni turno, ogni coder può usare il numero di frecce che desidera e poi ne pesca altrettante, in modo da averne sempre tre in mano.
Dopo averle messe giù nell’ordine desiderato, muove di conseguenza il suo segnalino.
Se non può fare nulla, il giocatore può scegliere di usare il proprio turno per scartare le sue carte e pescarne altre.
Vince il coder che arriva per primo al trofeo.

Allora: è vero o no che il coding è divertente anche per chi non è necessariamente nerd?


Apprendisti coder
Autore: Sean McManus
Illustratore: Rosan Magar
Editoriale Scienza
70 pagione, copertina flessibile.
Prima edizione: febbraio 2019

Nella stessa collana, Apprendisti scienziati, di cui vi avevo parlato qui.


 
Tra i tanti "perché" a cui un genitore deve rispondere nella vita, ce ne sono alcuni più difficili di altri, a volte semplicemente a causa della complessità dell'argomento, spesso perché certe domande portano con sé un carico emotivo molto pesante da gestire.

La morte è sicuramente una di queste.
Ricordo che a un incontro Nati per Leggere per genitori una psicologa ci disse che è meglio anticipare certi temi ai bambini, in modo da lasciare che li elaborino e familiarizzino con essi prima di trovarcisi di fronte.
In soldoni: meglio non correre ai ripari comprando un libro sulla morte quando il nonno è malato e sta per andarsene, ma presentarglielo in un momento emotivamente più neutro.


Tra tutti i libri sul tema rivolti ai bambini, quello che preferisco, per la sua delicatezza e per il suo messaggio positivo, è L'ultimo canto.
L'autore Pablo Albo inizia tratteggiando un minuscolo paesino: una strada, cinque case, pochi abitanti, ognuno con una caratteristica peculiare. Il dipinto morbido dai toni scuri di Miguel Ángel Díez infonde una sensazione di pacata serenità, come di un villaggio fuori dal tempo, o forse fermato a un'antichità che non esiste più.


E come nei paesi di un tempo, infatti, ci si sveglia al canto del gallo.
Ma questo non è un gallo qualunque: quello di Filiberto e Sacramento è il primo gallo tenore al mondo, e ogni mattina sale sulla cima del campanile e sveglia il paese intonando "O sole mio".


Un giorno, però, il gallo non si sveglia più. L'albo non usa mai la parola "morte":

Una notte chiuse gli occhi per dormire 
e la mattina dopo si scordò come si faceva per aprirli,
o forse decise di continuare a dormire per sempre... chi lo sa?

Come la vita nel paese, anche la sua fine è delicata e serena: il gallo, dal viso antropomorfo e con i capelli ormai bianchi, sorride nell'ultima scena in cui lo vediamo vivo, e la gente del paese ricorda di aver notato come ultimamente fosse molto stanco.

Meravigliosa l'immagine del corteo che accompagna il gallo verso la sua sepoltura: tutto il paese lo amava.


Resta però il problema di svegliare gli abitanti, d'ora in poi.
Viene indetta una selezione e ogni giorno qualcuno prova a salire sul campanile a dare la sveglia, ma grillo e formica hanno una voce troppo flebile, il signor Giacomo è troppo stonato e così nessuno sembra degno di sostituire il gallo.


Finché, la domenica successiva, un giovane gallo sale sul campanile, timido ed emozionato, e intona il suo "O sole mio": è il figlio del gallo di Filiberto e Sacramento, di cui fino a questo momento ignoravamo l'esistenza, e da lui ha ereditato il talento canoro.

Quello che amo di L'ultimo canto è proprio questa prospettiva: la morte è vista attraverso l'eredità immateriale lasciata a chi resta. Il gallo vive nel ricordo di chi resta e negli insegnamenti lasciati al figlio. La morte è una mancanza, ma anche una presenza.
Non è la fine, perché se lasci un segno nel mondo, in quel segno continui a vivere.


Fare divulgazione non è tanto una questione di cosa dire, quanto di come.
Non c'è argomento che sia troppo ostico se affrontato con la chiave giusta. Se penso funzionamento del corpo umano, due esempi di divulgazione d'eccellenza sono sicuramente il cartone animato Siamo fatti così e la serie La macchina meravigliosa in cui un Piero Angela "miniaturizzato" andava ad esplorare organi, tessuti e cellule. In entrambi i casi, la chiave del loro successo e della loro efficacia non era la semplificazione, ma il format, che rendeva accessibili e accattivanti anche concetti complicati.


Lo spettacolo del corpo umano (edizioni Il Castoro) dell’autrice e illustratrice americana Maris Wicks, specializzata nella divulgazione scientifica, va nella stessa direzione, trovando un format del tutto inedito per raccontare il funzionamento del corpo umano: il fumetto.

Il libro è strutturato come un vero e proprio spettacolo teatrale, il cui mattatore è uno scheletro con un senso dell'umorismo tutto suo.


Ogni capitolo, o meglio, ogni "atto", è dedicato a un diverso apparato, e lo scheletro di volta in volta si veste o si sveste per mostrarne il funzionamento.



Come dovrebbe fare ogni buon testo divulgativo, Lo spettacolo del corpo umano non riassume, ma affronta con accuratezza ogni aspetto, rendendo più leggera la lettura non con la semplificazione dei contenuti, ma attraverso la loro forma, come quando, nel presentare la composizione delle cellule, lo scheletro inizia a chiacchierare con l'apparato del Golgi.


A questi siparietti si alternano immagini più usuali per un testo scientifico, ma mai in numero tale da rendere pesante la spiegazione.


Di ogni apparato, lo scheletro ci presenta sia la fisiologia che la patologia, trattando ad esempio di asma quando parla di respirazione o di allergie per il sistema immunitario.
Come nel cartone animato Siamo fatti così, tra i personaggi troviamo anche i virus, anche qui animati ma in forma più filologicamente corretta e simile al vero.

Non mancano trovate e siparietti divertenti, come quando, per raccontare i cambiamenti della pubertà, lo scheletro tira fuori dal cilindro i peli.


O quando seguiamo il viaggio di un sandwich lungo l'apparato digerente, dalla bocca... al wc.


Leggerezza, quindi, ma non superficialità, perché nelle sue oltre 220 pagine Lo spettacolo del corpo umano non trascura nulla, comprese curiosità su cose che facciamo o ci accadono, come gli sbadigli o il singhiozzo, e piccoli consigli quotidiani su alimentazione e abitudini sane.

A proposito di scheletri, muscoli e articolazioni, lo sapete costruire con vostro figlio un modellino di mano con i suoi movimenti?
Si inizia ricalcando la mano su un cartoncino.


Poi si tagliano delle cannucce per riprodurre le falangi: saranno due per il pollice e tre per le altre dita, più altre corrispondenti sul palmo.
Con del nastro adesivo, si fissano le cannucce alla mano di carta e poi si fa passare attraverso dello spago, che si blocca con altro scotch sulla punta delle dita.


Tirando i fili (ovvero flettendo i muscoli) le dita si muoveranno proprio come quelle di una mano vera.


(attenzione: pericolo gestacci)


Ci sono molte ragioni per le quali nelle scuole di quasi ogni ordine e grado si sta diffondendo la pratica dell'orto di classe. Una di esse è che l'orto è una metafora molto potente della crescita, di come con le giuste cure e seminando bene, la terra possa dare i suoi frutti. Ma forse un orto può essere anche qualcosa di più.


L'orto di Simone, brillante esordio dell'argentina Rocío Alejandro (Kalandraka), inizia in un modo solo apparentemente banale, con un coniglio che all'arrivo della primavera prepara il suo orto.

Notiamo subito un utilizzo creativo della prospettiva e dello spazio-pagina. Se i personaggi sono rappresentati frontalmente, in modo tradizionale, l'ambientazione è vista in pianta, dall'alto.
In questo modo, la recinzione dell'orto forma una cornice che racchiude la superficie della pagina.


Uno spazio sicuro, ben delimitato, chiuso agli attacchi esterni, nel quale Simone inizia a coltivare le sue carote.


Simone ara, semina, raccoglie, e proprio al momento della raccolta arriva il suo amico Paolo, che offre il proprio aiuto e, come spesso accade, anche qualche consiglio non richiesto, come quello di seminare la lattuga.

Il piccolo spazio sicuro di Simone si apre. Il contorno così solido si rompe e il terreno da lavorare invade la pagina di sinistra, finora riservata alla parte testuale del libro.


E come Paolo, altri amici di Simone arrivano e iniziano a piantare pomodori, melanzane, mais.
Simone, naturalmente, non è particolarmente felice di questa intrusione, e lo esprime, pur senza riuscire a imporsi, ricordando che quelle sono le sue carote.

L'orto continua ad aprirsi fino a coprire completamente l'altra pagina, e Simone scompare: si sarà arrabbiato?


A sorpresa, Simone torna, non più contrariato, portando il cartello "l'orto di tutti".
Ora lo spazio tradizionale del libro non basta più: per contenere tutte le piante le pagine raddoppiano e si aprono creando un effetto poster.



Aprire il proprio orto, abbattere gli steccati, confrontarsi con l'esterno richiede uno sforzo (l'autrice lo comunica con sincerità: Simone in un primo momento è visibilmente seccato), ma alla fine è dalla condivisione e dalla cooperazione che nasce il risultato più ricco.

Originale ed efficace la cifra stilistica delle immagini: Rocío Alejandro usa una tecnica a timbri, che risalta soprattutto sulle verdure coltivate, e solo due colori principali (nero e arancione) nelle loro sfumature. La texture di carta millimetrata con cui rappresenta la terra arata sottolinea quell'ordine matematico perfetto che verrà poi stravolto dall'arrivo degli amici.

L'idea del libro, nata dall'osservazione degli orti comuni del suo quartiere, e la sua realizzazione grafica, danno profondità a un tema che era già stato ampiamente sviscerato, ma con una semplicità che lo rende adatto alla lettura anche da parte dei più piccoli, a partire dai tre anni.

E non c'è niente da fare: a me quella carta millimetrata, quell'ordine perfetto così stravolto e migliorato dalla collaborazione, ha messo voglia di giocare.
È così che è nato

Il gioco del dado e dell'orto


Due cose non mancano mai a casa mia: un dado classico e un po' di nastro biadesivo per personalizzarlo.
E così basta ricoprire le sue facce con delle verdure (due cespi di insalata, due rape, una carota e una luna, poi capirete perché), preparare una tabella-orto e alcune tessere-verdura (trovate tutto nel mio pdf stampabile) per iniziare il proprio orto, con due modalità di gioco.


Gioco tradizionale.

A turno ogni giocatore lancia il dado. Se esce una verdura, prende una tessera e ricopre uno degli spazi della propria tessera-orto.
Ogni tessera ha tre file, una per verdura.
Se esce luna, è notte: non si può lavorare. Il giocatore salta il turno.
Vince chi riempie per primo il proprio orto.


Gioco cooperativo.
(più fedele allo spirito del libro)

Scopo del gioco è completare l'orto prima che il giorno finisca e arrivi la luna.
A turno ogni giocatore lancia il proprio dado. Se esce una verdura, prende una tessera e ricopre uno degli spazi della tessera-orto comune.
Ogni tessera ha tre file, una per verdura.
Se esce luna, il giocatore prende una tessera-sole e riempie uno degli spazi della tabella-giorno.
I giocatori vincono se riescono a completare la tabella-orto prima che sia completata la tabella-sole (e sia dunque arrivata la luna).

Iniziate così, per prendere confidenza con le regole, poi buttate via le tabelle e le tessere e giocate con una matita su un foglio quadrettato: progettate il vostro orto nella forma che volete, e le verdure disegnatele a mano.
Coltivate in questo gioco anche la vostra creatività.


 
Quando inventavo le mie avventure e i miei giochi, da bambina, tra i protagonisti c'erano amici, compagni di classe, cani, scienziati, cantanti e unicorni, ma mai, proprio mai i miei genitori.
Non che non li amassi, intendiamoci, ma non c'è spazio, nell'anarchico regno della fantasia, per chi mette (giustamente) regole e paletti.


Non c'è spazio per i genitori (perlomeno, non per i suoi) nemmeno nelle avventure del piccolo protagonista di Pluk e il Grangrattacielo, il primo romanzo illustrato pubblicato dalla giovane e attenta casa editrice LupoGuido.

Pluk è senza casa ma ha un carro attrezzi rosso. Dalle illustrazioni si direbbe un carro attrezzi giocattolo, ma il testo non lo specifica mai, né parla di motori o pedali, e comunque tutti gli adulti sembrano prenderlo sul serio.
Pluk è senza casa, dicevo, ma per sua fortuna c'è la torretta del Grangrattacielo che è libera e sembra fatta apposta per lui. Non ci sono contratti di affitto o cavilli legali, in questo romanzo, così come non ce n'è nelle fantasie dei bambini, e così Pluk ci va a vivere e conosce tutto il favoloso microcosmo di questo grattacielo, sospeso tra realtà e fantasia.


Più che nelle vivaci avventure di Pluk, la forza di questo romanzo sta nei personaggi di cui esse sono costellate.
L'olandese Annie Schmidt, premio Andersen 1988, li racconta con tratti caricaturali densi di umorismo e Fiep Westendorp, per anni al suo fianco come illustratrice, ce li mette davanti agli occhi rendendoli ancora più irresistibili nel loro candore fanciullesco.
Favolosa è la signora Stralindo, fissata con le pulizie, che gira con la sua bomboletta spray e suoi impeccabili vestiti un po' rétro, e costringe la figlia Agatina a non sporcarsi mai.


Anche se i nostri preferiti restano i Fracassini, spettinatissimi bambini che vivono col papà in mezzo al disordine e alla confusione.


Ma sono capaci di pettinarsi e comportarsi in modo impeccabile quando devono convincere la signora Stralindo a mandare Agatina in vacanza con loro.


La città si direbbe polarizzata tra adulti che non ricordano di essere stati bambini, o che forse non lo sono mai stati, come la Stralindo, e adulti che in fondo lo sono ancora, come il papà dei Fracassini.

E questo microcosmo in cui bambini e adulti discutono alla pari e vivono le stesse avventure, vede tra i personaggi principali anche una curiosa carrellata di animali parlanti, dallo scarafaggio da compagnia di Pluk all'amica colomba, fino all'incompreso lupo marinaro, che tutti temono per un equivoco sul nome (ma sarà "marinaro" o "mannaro"?) e perché tempo addietro aveva mangiato un cavolo che era stato mangiato da una pecora (simpatica citazione del cassico rompicapo che strizza l'occhio agli adulti che leggono).


Come nelle storie di ogni bambino, in Pluk e il Grangrattacielo c'è un po' di magia, un po' di avventura, un po' di ecologia (l'ultima missione dei protagonisti è salvare un bosco), ma soprattutto un po' di sovvertimento delle regole, con il gioco che prende il sopravvento, come quando la marmellata di bambacche fa tornare bambini tutti gli adulti della città.
Pluk è in realtà un bambino molto assennato, come lo è ogni eroe nelle proprie fantasie, e dimostra spesso più pragmatismo di molti adulti.

Si direbbe che tutto il romanzo è una fantasia pensata dal protagonista stesso, ma in fondo questo non ha importanza, perché reale o meno, la storia ci tiene incollati fino alla fine, a parteggiare per i buoni e per i bambini.

Avvincente e allegro, Pluk e il Grangrattacielo è perfetto  per una lettura autonoma dai 7 anni o per una lettura condivisa dai 5 anni.

E se oltre alla lettura volete condividere con i bambini qualche momento di gioco sregolato, perché non etichettate un barattolo di marmellata come fosse a base di bambacche?
Potrete fare merenda insieme ai vostri figli e poi trascorrere un'ora di regressione in cui divertirvi alla pari con loro. Oppure, se preferite, potete inventare marmellate di pofbacche che vi fanno parlare solo con la O, oppure di boingbacche, che vi fanno camminare saltellando.


Perché se i genitori, nelle fantasie, non servono a nulla, nella realtà sono sempre i compagni di gioco migliori.

Pluk e il Grangrattacielo
Annie M.G. Schmidt (autrice)
Fiep Westendorp (illustratrice)
Valentina Freschi (traduttrice)
Formato: copertina rigida, 19 x 25 cm
204 pagine
Anno: 2018
(prima pubblicazione in lingua originale: 1971)


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Eccomi

Copywriter e anche un po' account, co-autrice di fumetti, dilettante (ma appassionata) del fai da te, navigatrice compulsiva, divoratrice di libri e di serie TV. Divido la casa con un marito, tre figli e parecchi gatti di polvere.

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