Nuvole in scatola
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Tendiamo spesso a pensare che i bambini siano più "paurosi" dei grandi. Siamo pronti ad allargare le braccia per consolare i nostri figli e dire loro "Non è niente, mamma e papà sono qui".
Ma davvero i grandi non hanno paure immotivate?
Ed è più coraggioso chi non ha mai paura o chi ne ha?


Mal di paura, scritto da Chiara Ingrao con le illustrazioni di Giulia Pintus (Edizioni Corsare), è una raccolta di filastrocche in rima sulla paura, anzi, sul "mal di paura": quelle paure eccessive e immotivate che a volte possono minare la serenità e ritorcersi contro chi le prova.

Le pagine alternano un "mal di paura" dei bambini e uno degli adulti, tratteggiando dodici personaggi con le loro fissazioni, e tra leggerezza e ironia ci portano a riflettere sull'insicurezza profonda da cui nascono queste paure e, ancora di più, sulle conseguenze da esse provocate.


Già, perché accanto a paure più classiche (in genere quelle dei bambini), come quella del buio o dei ragni, troviamo paure che si trasformano in patologie, o in violenza.


C'è chi ha così tanta paura dei ladri da armarsi fino ai denti, chi ha paura dei mendicanti e non si rende conto che il pericolo può arrivare da chi è ben vestito e profumato, chi ha paura di lasciar fare al figlio le proprie esperienze, e vorrebbe proteggerlo da tutto, impedendogli di vivere.

Le paure di cui si parla non sono quelle "lecite" e inevitabili (la paura della morte, la paura di perdere i propri affetti), ma comportamenti nati da una visione distorta della società e che spesso non fanno altro che rendere la società peggiore.


Le situazioni, buffe ed eccessive ma anche molto amare, tratteggiate dalle filastrocche di Chiara Ingrao, trovano espressione perfetta nelle illustrazioni caricaturali di Giulia Pintus, che ci mostrano persone fagocitate dalle proprie ossessioni, attraverso l'uso di immagini iperboliche (le troppe armi sotto il cuscino) o metaforiche (il bimbo "conservato" in una bottiglia di vetro).

Nonostante non assumano mai toni angoscianti, le filastrocche non mancano di sottolineare gli esiti infausti di queste paure malsane, che spesso si ritorcono contro chi le prova.

Leggerezza e ironia portano insomma a riflettere su molti mali del nostro tempo, visti attraverso la lente della fragilità umana e messi un po' in ridicolo per sottolinearne l'assurdità.


Alcune trovate linguistiche (come la ricorsività di "Salvatore ha paura di avere paura") accompagnano il lettore attraverso riflessioni profonde sulla psicologia delle paure e sull'assurdità di alcuni atteggiamenti.

La paura diventa una lente attraverso cui leggere xenofobia, bullismo, germofobia, comportamenti ossessivi e ansiosi che fanno del male a chi li mette in atto e anche alle persone che gli stanno attorno.

Perché questa è l'unica cosa di cui dovremmo davvero avere paura: delle nostre assurde, immotivate paure.



Preparare del cibo è sempre una forma d'amore. Lo è quando si cucina un pranzo sontuoso o una complicata torta di compleanno, ma anche quando semplicemente si infila nello zaino la merendina per la scuola.


Lo sa bene Marin, protagonista di Il ladro di panini di Patrick Doyon e André Marois (ed. Sinnos).
I deliziosi panini che gli prepara ogni giorno sua madre contengono infatti due ingredienti speciali: la sua favolosa maionese fatta in casa e tutto il suo amore per la buona cucina (e per lui). E in più, un biglietto di incoraggiamento scritto ogni giorno dal papà.


Un lunedì, però, quando Marin apre il suo cestino del pranzo, il suo panino non c'è più. Chi l'avrà rubato?


Subito Marin inizia la sua "indagine", analizzando uno ad uno i possibili sospetti.


Con la perizia di un detective, analizza alibi, moventi e personalità di ognuno, e come in tutti i gialli che si rispettino, si rivolge anche alle autorità (il preside), anche se alla fine l'indagine indipendente risulterà la più efficace .


Il ladro di panini Ã¨ un giallo leggero, divertente, che unisce l'avventura a un ambiente quotidiano che il bambino conosce bene, quello della scuola.
A fare da contorno alla trama troviamo una maestra greca che ha il nome buffo di una salsa, il migliore amico e la migliore amica di Marin (entrambi molto legati "anche se non parlano molto", come succede spesso in questa età, in cui l'amicizia è ancora gioco e condivisione di tempo e non introspezione), la personalità di due genitori amorevoli ma un po' troppo fissati con la cucina, e alcuni personaggi un po' caricaturali che tratteggiano un microcosmo appassionante ma anche credibile, perché a ben guardare tutti noi abbiamo avuto qualche compagno di classe molto mangione, o troppo burlone.

La grafica del libro fa uso di pochi, selezionati colori caldi, che rendono le illustrazioni più semplici e ancor più espressive.
L'impaginazione oscilla da alcune pagine più tradizionali (testo da un lato, illustrazione dall'altro) ad altre più spiccatamente ispirate al fumetto o alla graphic novel.
La presenza del testo resta comunque poco pesante rispetto alle immagini, e la suddivisione in capitoli "temporali" (Lunedì mattina, lunedì pomeriggio e così via) rende più semplice scandire la lettura in più giorni.

Il ladro di panini Ã¨ insomma perfetto come primo approccio alle letture autonome, perché nonostante le 160 pagine si mantiene agile nella lettura e nei contenuti, anche grazie ai font della famiglia "leggimi" di Sinnos, pensati per rendere più semplice l'approccio al testo.

Una lettura che aiuterà i bambini ad appassionarsi ai libri, ai gialli, ai fumetti e... al cestino della merenda.

A proposito, se vi piace l'idea di lasciare un piccolo messaggio affettuoso nella merenda di vostro figlio, come il padre di Marin, ecco qualche spunto preso in rete per non limitarsi al solito bigliettino.

1) Potete scrivere un messaggio direttamente su un frutto, purché questo venga sbucciato prima di mangiarlo: perfette le banane o i mandarini (fonte: Cakewhiz).

  

2) C'è anche la versione "messaggio magico": lo si traccia incidendo la buccia con uno stuzzicadenti e col passare delle ore si scurirà, per effetto dell'ossidazione (fonte: Beafunmum)

 3) Potete anche stampare degli adesivi, o usare etichette adesive da scrivere e applicare sulla buccia della frutta. (fonte: Ohhappyday)

4) Soluzione più elaborata: dipingere l'interno del cestino della merenda con vernice lavagna per poter scrivere un messaggio nuovo ogni giorno. La valigetta può diventare anche un'idea-gioco da portare in viaggio. (fonte: Meandmybucket)



Perché con una coccola di mamma e papà, qualsiasi merenda è più buona.


Una nuova idea, la maggior parte delle volte, non è un'idea davvero nuova, ma un modo diverso di affrontarne una vecchia, o ancora più frequentemente l'unione di due idee precedenti.
La creatività, in sostanza, non è altro che una ricetta nuova per usare ingredienti che già conosciamo.


È così che è nato il rinofante, la strana creatura che vive tra le pagine (e nel titolo) di C'è un rinofante sul tetto!, di Marita van der Vyver e Dale Blankenaar, tradotto per la nuova e promettente casa editrice Lupoguido da Virginia Portioli.
Il rinofante, come potete immaginare, è un rumoroso e ingombrante incrocio tra un rinoceronte e un elefante. Ed è la creatura che crede di sentire sul tetto Daniel, un bambino che per la prima volta dorme a casa dei nonni.

I nonni sono molto bravi: gli leggono una storia, gli cantano una canzone, ma già dalla prima pagina, quando tutto sembra tranquillo, le illustrazioni "entrano" nella testa di Daniel e ci fanno vedere il suo mondo, che amplifica i dettagli più inquietanti di ciò che lo circonda.


Daniel ha paura,  anche se fatica ad ammetterlo. Chiama il nonno per quel rumore sul tetto (i rinofanti, appunto), poi la nonna, per il coccopotamo in bagno, e ancora il nonno, per la dragoraffa nell'armadio.
La paura, si sa, è creativa: ci porta a immaginare, a ricostruire, a rimescolare elementi tra di loro rendendoli più spaventosi di ciò che sono.
Le creature nascono da un rumore che proviene dalla stanza accanto, o da qualcosa di intravisto nell'armadio: sono i sensi amplificati dall'allerta provocata dalla nuova situazione in cui Daniel si ritrova. È qualcosa che abbiamo provato tutti, e che in questo albo si traduce in immagini, storie, suggestioni.




Il formato insolito, stretto e alto, del libro, amplifica la dimensione onirica delle illustrazioni: la stanza dove dorme Daniel, ad esempio, sembra altissima, come se Daniel fosse osservato da qualcosa di molto più grande di lui.

E i mostri immaginari invadono le doppie pagine in tutta la loro trabordante presenza, incontenibili come le paure del protagonista.



Daniel riuscirà a trovare pace solo quando riuscirà ad ammettere ai nonni (e soprattutto a se stesso) di avere avuto paura, dimostrando che le sensazioni vanno vissute, affrontate e comunicate, e non nascoste.

C'è un rinofante sul tetto! è un viaggio nella mente tormentata di un bambino impaurito, una dimensione onirica in cui vivono fortissimi i contrasti tra le figure imponenti e spaventose delle creature immaginate dal bambino e i loro nomi, buffi e creativi, che si prestano a giocare, a inventare, anche per esorcizzare le nostre paure, come fa Daniel nel libro.

Come si crea un rinofante?


A proposito, perché non provare a usare questo meccanismo creativo per giocare con i bambini?
Si possono inventare tantissimi personaggi a partire dalla crasi di due animali esistenti, stimolando l'immaginazione, un po' come si fa con i personaggi dei Lego, smontando teste e gambe e rimontandole a caso.

Come sarà fatta una canrica? Potrebbe essere una creatura pelosa e scodinzolante a sei zampe, che trasporta dei grandi panini nella propria tana.

E riuscite a immaginare un galguro, che sveglia tutti cantando la mattina e salta in giro per il pollaio portando i pulcini nel marsupio?

Vietato fermarsi agli animali! Il gioco si fa ancora più divertente (e – perché no? – anche introspettivo) passando a persone conosciute, amici e familiari. Da una mamma e da un fratellino può nascere un matello, leggendaria creatura che torna da lavoro, prepara la cena e poi vuole essere presa in braccio.
(È anche un'ottima scusa per farsi fare le coccole, no?)



Per un genitore che legge per la prima volta una delle varie formulazioni dei diritti dei bambini, il "diritto alla noia" (in alcuni casi descritto come "diritto all'ozio") è quello che appare più sorprendente, per almeno due motivi.
Il primo è che stupisce vedere un diritto formulato in negativo. Siamo abituati a pensare ai diritti come a qualcosa di attivo: il diritto di fare, il diritto di avere, il diritto di essere.
Il secondo è che qualsiasi genitore sa che per un bambino la noia non è affatto "naturale", ma va insegnata. Un bambino senza nulla da fare, normalmente, tormenta mamma e papà con mille "mi annoio", "cosa posso fare?", "giochi con me?", e serve una buona dose di sopportazione e determinazione a convincerlo a inventare semplicemente un gioco, senza nulla di imposto o organizzato.
Eppure i momenti di noia sono fondamentali per sviluppare l'immaginazione e la creatività di un bambino, liberandolo da ogni struttura, ed è controproducente per il suo sviluppo intellettivo ed emotivo riempire ogni minuto delle loro vite con attività, giochi e televisione.


La storia di Tic e Tac, i due piccoli fratellini tassi protagonisti di Un pomeriggio super! di Jessixa Bagley (Terre di Mezzo editore), inizia così: con un "Mi annoio!".


La mamma propone loro mille alternative (vi suona familiare?): leggere un libro, costruire un fortino, andare a pescare, ma niente: Tic e Tac hanno già provato di tutto e di più.
E come succede spesso nella realtà, mentre i due piccoli proclamano la loro noia, le illustrazioni ci fanno vedere che in realtà stanno già giocando, solamente senza accorgersi di farlo, perché per tutti i bambini giocare è qualcosa di innato, di inevitabile.


Mamma Tasso coglie la palla al balzo e chiede loro di aiutarla a stendere i panni appena lavati.
Anche quello che alla mamma sembra un lavoro pesante, può diventare un'attività divertente per un bambino.


Ma i panni finscono presto, a differenza della fantasia dei piccoli tassi, che è invece inesauribile.
Così, mentre la mamma è al mercato, Tic e Tac inventano in gioco nuovo, e inoiziano ad appendere pentole, posate, giornali, persino una boccia con un pesce rosso!


Quando la mamma torna, si trova di fronte a metri e metri di filo steso, con su appeso ogni possibile oggetto di casa. È sempre così quando i bambini inventano un gioco, no? Difficilmente ritorna tutto com'era prima.
Alla fine, la mamma troverà una simpatica soluzione per rimettere "a posto", se non tutta la casa, almeno Tic e Tac.
E quello che era iniziato come un momento di noia apparentemenre  insormontabile, si è trasformato, appunto, in Un pomeriggio super!. Cosa che non sarebbe potuta succedere davanti alla tv, o a un allenamento, o a una lezione, perché i pomeriggi super, lascia intendere il libro, nascono sempre dalla fantasia (e da un po' di noia, che è il suo carburante preferito).
Un pomeriggio super! è una storia quotidiana e straordinaria al tempo stesso, perché è proprio questo che insegna: a trovare lo straordinario nelle cose più semplici.

Così, la prossima volta che i vostri bimbi vi chiederanno cosa possono fare, non tirate fuori piste o dvd, ma quello che avete sottomano, magari proprio un filo, delle mollette e qualche calzino.


Secondo l'età e le capacità dei bambini, potete semplicemente lasciare che li appendano al filo, oppure inventare una gara a chi accoppia il calzino giusto, o farvi aiutare a stendere il bucato (e vince chi finisce prima).
Oppure... oppure niente. È dalla loro fantasia che nascono i momenti "super", vero?


Da quando inizia l'età dei "perché", un genitore si trova di fronte a interrogativi che Aristotele, Hegel e Kant, a confronto, si trastullavano. Dagli assiomi matematici ai termini astratti, dalle leggi fisiche alle norme sociali, ci si ritrova a dover rendere semplici e comprensibili concetti che a volte nemmeno noi riusciamo ad afferrare in tutti i dettagli.
Eppure a volte basta la chiave giusta e anche le teorie più complesse diventano semplici da spiegare.


Perché noi Boffi siamo così? (Jonathan Emmett e Elys Dolan, Editoriale Scienza) racconta l'evoluzione in termini così semplici che si permette addirittura di metterli in rima.
Siamo sul pianeta Ciribob, abitato dai boffi, strani animali gialli, pelosi e dal collo lungo, ognuno unico per le sue caratteristiche.


Certo, in origine i boffi erano molto diversi da come li vediamo ora: erano blu, tarchiati e a pelo corto. Finché un giorno, in una cucciolata, ne nacquero alcuni con un pelo lungo e folto. Una mutazione genetica (ma qui siamo in una favola dove tutto è semplice e in rima, e queste parole non si usano).


E se all'inizio questa mutazione sembra inutile, forse anche fastidiosa, all'arrivo di un lungo e rigido inverno i boffi più pelosi sono gli unici a sopravvivere. Così, alla cucciolata seguente, tutti i boffi presentano questa caratteristica.


E quando arriva un terribile predatore, si rivela vincente la mutazione dei boffi gialli, che riescono a mimetizzarsi con l'ambiente.


Ed è così che i boffi sono diventati come li conosciamo ora (e continuano a mutare).

Alla fine, il libro esce dalla storia per offrire un excursus dell'evoluzione sulla Terra, dai primi organismi unicellulari fino agli esseri umani come li conosciamo oggi.


Tutto questo racconto si dipana tra le pagine con un testo semplice e leggero, scritto tutto in rima, ma senza che le rime appesantiscano la comprensione (merito anche della traduzione di Lucia Feoli, rispettosa dello stile, oltre che dei contenuti).
I risguardi illustrano le schede "scientifiche" degli abitanti del pianeta Ciribob, con tutte le loro caratteristiche, contribuendo alla creazione di un mondo coerente e credibile, mentre l'ultima pagina spiega brevemente da storia di Darwin e della sua teoria dell'evoluzione delle specie.

Un po' per la forma curiosa, un po' per le rime, questi boffi mi hanno ricordato molto Gli Snicci del Dr. Seuss, e come gli Snicci ci hanno saputo catturare subito con la loro simpatia. Anche l'intento, in fondo, è in qualche modo analogo: se il Dr. Seuss ha voluto trasmettere un messaggio politico / sociale, Perché noi Boffi siamo così? insegna un importante concetto scientifico.

Un concetto che ho provato a rendere più familiare con un gioco da tavolo che ne chiarisse meglio le "regole".

Tutto parte da una popolazione di mostri verdi (se volete giocare anche voi, potete usare il mio pdf stampabile), che hanno subito diverse mutazioni.
Rispetto al mostro verde iniziale (rappresentato dalla carta gialla, che non ha funzione di gioco ma solo esemplificativa) si sono sviluppati individui con il pelo, con le pinne, con le ali e più alti degli altri, oltre naturalmente a combinazioni delle diverse caratteristiche.



Naturalmente ogni mutazione porta con sé un vantaggio competitivo: i mostri pelosi sopravviveranno al ghiaccio, quelli alti alla siccità, perché come i boffi sapranno raggiungere le foglie sugli alberi, quelli con le ali potranno superare i fiumi di lava volando, mentre quelli con le pinne potranno nuotare in caso di diluvio.

Ognuno dei due giocatori inizia con una popolazione di otto mostri verdi presi a caso e tirando il dado affronterà le diverse catastrofi naturali (oppure, grazie alle caselle "evoluzione", potrà ampliare la propria popolazione, o scambiare un individuo con l'avversario con la casella "incrocio di specie").
A ogni catastrofe, il giocatore dovrà scartare tutti gli individui non adatti alla sopravvivenza, conservando gli altri.
A meno che non capiti nella casella "asteroide": allora no, non c'è scampo per nessuno.
Ad esempio, se il segnalino finisce su “diluvio”, il giocatore dovrà rimettere nel mazzo tutte le carte i cui individui non hanno le pinne.



In questo gioco lo scopo non è arrivare per primi al traguardo, ma arrivarci con una popolazione di mostri verdi più ampia possibile.
Il gioco finisce quando un giocatore ha finito tutte le carte (la sua specie si è estinta!) o quando entrambi i giocatori arrivano in fondo: in questo caso vince chi è arrivato con più carte.

E se, come diceva Einstein, "Dio non gioca a dadi", magari chissà, forse a Darwin i dadi piacevano di più.


"Mamma, ehi, pss!"
"Che c'è, Piccolo T? Ti avevo chiesto di lasciarmi dormire!"
"Ma infatti ti sto chiamando sottovoce!"
Inutile: far capire ai bambini l'importanza di una bella dormita è praticamente impossibile. E come in tutte le cose, dove non ci sono soluzioni, arriva l'ironia.


Buonanotte! (editrice Il Castoro), l'ho scoperto con due anni di ritardo (sia dalla sua uscita, sia dal dialogo sopra riportato), ma è stata una folgorazione.
Jory John e Benji Davies sono riusciti a dare vita a una storia esilarante, che non nomina nemmeno mamme, papà e bambini, ma in cui i genitori si riconosceranno facilmente. È la storia di Orso, stremato dal sonno, e della sua vicina di casa Anatra, che proprio non riesce a dormire.


La prima doppia pagina mostra subito la vivacità delle illustrazioni, con colori pieni e fondi piatti, e la loro espressività, ma anche un primo, forte contrasto tra due mondi: quello dell'anatra, giallo canarino, vitale e luminoso, e quello dell'orso, blu e tranquillo.
A un "Non sono mai stato così stanco" di Orso, Anatra ribatte a distanza col suo "Non sono mai stata così sveglia".


E qui iniziano il tormento (di Orso) e il divertimento (nostro), perché Anatra bussa violentemente alla porta del vicino, appena assopito, iniziando a proporgli ogni genere di attività per passare il tempo.
È un botta-e-risposta serrato, da leggere con la vociona grossa e addormentata di Orso e quella sottile, gracchiante e su di giri di Anatra. Incalzante lei, sonnacchioso lui (è d'obbligo qualche sbadiglio mentre si legge!): il contrasto, anche nella lettura, è di quelli che tengono il piccolo ascoltatore incollato al libro.


Ma è anche nelle pause, nelle pagine "mute", che le sensazioni quasi fisiche del sonno di Orso e della veglia di Anatra traspaiono dalla forza comica delle illustrazioni di Benji Davies.
Quale genitore non si è mai trovato addormentato mentre il suo piccolo lo fissava?


E poi c'è il finale, che non vi svelo, ma che non mancherà di aggiungere al libro stupore e risate.

Buonanotte! è così: irrestibile. E no: non insegnerà ai vostri bimbi a lasciarvi riposare un po' di più. Ma forse vi aiuterà ad affrontare il sonno arretrato con un po' di leggerezza in più.


È tornato "quel" periodo dell'anno, quello in cui i nostri figli ci surclassano ampiamente nella quantità di eventi mondani a cui sono invitati (la festa di fine asilo, quella di fine catechismo, quella di fine calcio), e tra le chat delle mamme serpeggia l'annosa questione: "Cosa regaliamo alle maestre?".


L'anno scorso per il Piccolo T era l'ultimo anno di asilo (ops! Scuola dell'infanzia. Ma non riesco a non chiamarlo "asilo", visto che è lo stesso che ho frequentato io *#§% anni fa), e quando è stato il momento di trovare l'idea non ho avuto dubbi: dato che la maestra aveva frequentato con me il corso per lettori volontari di Nati per Leggere, la scelta non poteva che ricadere su un libro.
Ma quale? È stata Federica di mammamogliedonna, con un suo articolo, a farmi scoprire L'uomo dei palloncini, di Giovanna Zoboli e Simone Rea (Topipittori), la storia poetica di un venditore ambulante di palloncini.


Cosa c'entrano i palloncini con una maestra? C'entrano, eccome se c'entrano, perché

L'uomo dei palloncini conosce ogni bambino di ogni paese o città.
È questa la sua specialità.
E per ognuno sa cosa è meglio.
Sa che per un certo bambino serve il palloncino a forma di astronave, per l'altro il delfino, o il cavallo.
E riempie questi palloncini di un'aria di cui è padrone, l'aria più leggera del mondo, che fa volare ogni cosa.
E quel palloncino cambia in qualche modo i bambini, che dopo averlo ricevuto camminano

come se ci fosse
un sentiero nuovo per i loro passi.


Non è forse questo che fa una brava insegnante?
Capire ogni bambino, senza seguire per tutti la stessa strada, ma adattandosi alle loro unicità e alle loro esigenze. Donare a ognuno ciò di cui ha bisogno, mettendoci dentro qualcosa di suo, la propria "aria speciale".
E grazie a quel dono, renderli capaci di trovare il proprio sentiero.

L'uomo dei palloncini non ha una vera e propria storia, è più il ritratto di questo personaggio, tratteggiato con delicatezza, poesia e un po' di mistero dalle parole di Giovanna Zoboli. Le illustrazioni di Simone Rea accompagnano il testo nel modo più efficace, con campi lunghi che lasciano la collettività protagonista: l'uomo dei palloncini non è importante in sé, ma per il suo ruolo nei paesi che attraversa.
E non a caso il suo intervento porta colore alle cose e alle persone, e le illustrazioni passano da una preponderanza di bianco e nero a una grande vivacità di tinte diverse tra loro.


Sì, era il messaggio giusto per la maestra che aveva accompagnato per tre anni il Piccolo T e i suoi compagni di classe. Andava però accompagnato dal giusto biglietto, con il giusto testo e con un ricordo di tutti i bambini.

Per questo ho ritagliato tanti palloncini di carta doppi, che si aprissero a libro, e ne ho consegnato uno a ogni genitore.


Ogni bambino ha poi attaccato una propria foto da un lato e scritto un breve messaggio dall'altro (il Piccolo T il suo messaggio l'ha messo nella foto, limitandosi poi a scrivere il nome sull'altro lato del palloncino).


Infine, ho incollato tutti i palloncini su un grande cartellone azzurro-cielo, scrivendo il messaggio su una nuvoletta bianca:

"Grazie per aver saputo dare a ognuno di noi
il giusto palloncino per volare lontano".

Sotto ogni palloncino ho aggiunto anche qualche centimetro di spago. Chiusi, i palloncini volavano colorati nel cielo.
Aperti (qualcuno a destra, qualcuno a sinistra, perché ogni palloncino fa un po' come vuole), avrebbero ricordato alla maestra il nome e il volto di tutti i suoi bambini.


Il libro? Lo abbiamo impacchettato così: usando due palloncini per indicare destinatario e mittente.


Perché quando un palloncino vola, non si può mai sapere dove va a finire.


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Eccomi

Copywriter e anche un po' account, co-autrice di fumetti, dilettante (ma appassionata) del fai da te, navigatrice compulsiva, divoratrice di libri e di serie TV. Divido la casa con un marito, tre figli e parecchi gatti di polvere.

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